Locus of control, seconda parte, atto secondo

Mi sembra di aver visto che al momento attuale ho 550 amici di Facebook; temo che dopo questo post ne avrò significativamente meno (Michela Fontana tu però non mi abbandonare!) e questo perché, come tutti sanno, “chi tocca la famiglia muore”, o almeno così scrivono in tutte le salse i tamarri che sui social fanno i mafiosetti da serie tv. E in questo post hai voglia se la tocco, diciamo pure che la spappolo, e non certo per dire che il parente di qualcuno è una brutta persona (quello ve lo dite da soli), ma per spiegare come il concetto stesso di famiglia, quando posto sopra all’individuo in termini di importanza, diviene deleterio nel massimo grado possibile.

Quindi, se il post precedente era controindicato a chi aveva conservato i suoi disegni di bambino e i quaderni delle elementari, senza ironia questo è assolutamente sconsigliato a chi chiama la madre tre volte al giorno, passa le sue domeniche con i parenti o tiene l’urna con le ceneri dei morti in soggiorno (e ho conosciuto una che le urne con i genitori morti se le portava al mare sotto l’ombrellone).

Sarebbe inutile spiegare a chiunque viva in Italia quanto il senso di importanza della famiglia sia radicato e sovradimensionato nella mente dei nostri concittadini, come i rapporti con i familiari invadono incessantemente la sfera privata e la frequenza parossistica con cui la gente rivolge il suo pensiero ad uno o più dei propri congiunti; ed è così in tutti i paesi del sud del mondo, che infatti sono i più arretrati in termini di sviluppo. Dunque la sottomissione del singolo al proprio sistema familiare è parte integrante della nostra cultura e delle nostre tradizioni fin dai tempi delle caverne, e questo comporta che la fonte del controllo dell’italiano medio sia quasi sempre spostata dal Sé alla sua famiglia o ad uno dei suoi membri al quale il controllo della propria vita viene delegato (genitore, figlio, fratello o sorella e via elencando).

Il presente post affronta questo problema, ma è molto lungo (lo dovevo dividere ulteriormente, ma mi ero stufato). Se sei pigro, soffri di ADHD, sei un hippy o un new-ager, o non te ne frega niente degli hippies o dei new-agers, puoi accorciare il tutto andando direttamente al capitolo ATTO SECONDO, SCENA TERZA. Altrimenti, continua pure la tua lettura.

Alcuni indicatori interessanti dell’ampiezza e della gravità del fenomeno della debolezza dell’Io dell’italiano contemporaneo sono rappresentati dal diffondersi di ideologie spiritualistiche postmoderne della corrente new age le quali, apparentemente molto lontane dal morboso attaccamento anti-cristiano che il cattolicesimo romano ha per la famiglia e dalle rappresentazioni nazional-popolari, soprattutto televisive, dell’imprescindibilità della sottomissione del singolo al clan dei legami di sangue, reimplementano questa dipendenza in modo originale. Fra queste ideologie pseudo-religiose troviamo la pratica della gratitudine pervasiva e le costellazioni familiari; andiamo allora ad approfondirle!

 

ATTO SECONDO, SCENA PRIMA: UN PROFLUVIO DI GRATITUDINI

 

Chiunque di voi può osservare come sui social network ci sia un florilegio di gratitudini: grata per il sole, grata per gli amici, grata per andare in bagno con regolarità, grato perché ha vinto la Roma, grato perché ho trombato quella che mi piaceva, grata di là e grato di qua (però quando le cose vanno poi di merda, tutta ‘sta gratitudine improvvisamente sparisce). Di solito questa incontenibile gratitudine viene rivolta all’“universo”, qualsiasi cosa intendano con questo termine ed io, che sono un arido, mi chiedo sinceramente questo insieme di sassi spaziali che cacchio avrà fatto mai per la gente. Ma la faccenda da folkloristica diviene preoccupante, poiché ho potuto ascoltare spesso, quando sono andato a fare qualche pratica spiritualistico-meditativa e partiva immancabile il mantra della gratitudine, che sopra ogni cosa dovremmo esprimere enorme gratitudine ai nostri genitori per averci fatto nascere e averci allevato nel modo migliore possibile per loro, ed ora che siamo grandi possiamo timidamente prenderci il permesso di vivere la nostra vita accomiatandoci da loro, sempre fra un inchino e l’altro rivolto a lor signori.

Ritengo sia opportuno riportare un po’ di buon senso nella faccenda:

  1. Non ho chiesto io di nascere e di vivere, e non ho alcun ricordo di come si stesse dall’altra parte (io credo all’aldilà spirituale), quindi non ho la più pallida idea se con la vita mi hanno dato un premio o una punizione, e non vedo allora perché a priori dovrei essere grato della nascita, pur non negando che, in questa fase della mia esistenza, spesso sono sinceramente felice. Però, vista la vita sulla Terra che, in molti momenti per tutti, e per molte persone quasi sempre, fa schifo, verosimilmente il nascere è stato una punizione, non un premio. In una prospettiva atea poi la gratitudine ad un universo inanimato per il dono della vita è ancora più scema, dato che da morti non conserveranno nulla della loro coscienza. Bislacca invece l’idea dei credenti che la vita sia un dono, poiché Dio non dona a niente a nessuno, ma agisce di necessità esprimendo sé stesso, altrimenti non sarebbe infinito e assoluto, quindi se sono nato vuol dire che la cosa era ineludibile e la mia esistenza terrena svolge una funzione necessaria tanto per me quanto per Dio, dunque è più opportuno che sia Dio a ringraziarmi e ad essermi grato per la mia esistenza che non il contrario, essendo io la parte in svantaggio nella faccenda (e infatti ritengo che varie entità spirituali sub-divine ci diano una grande mano a tirare avanti). In ultimo, nelle esperienze di pre-morte, sulle quali c’è interessante letteratura scientifica, quelle dove si percepisce per un attimo la vita nel mondo dello spirito, i sopravvissuti sono tutti concordi nell’affermare che dall’altra parte si sta meglio e per questo divengono assai meno attaccati alla vita.
  2. Analogamente, non sono certo grato ai miei genitori per avermi fatto nascere, ma spero di essere stato il frutto di un atto d’amore e non un modo di riempire il vuoto, o un mezzo per ottenere vantaggi strumentali o soddisfare aspettative sociali, come raccontano invece le persone che hanno fatto figli nella maggior parte delle storie che ho ascoltato. Non sono grato a priori di nulla, ma ringrazio sentitamente per tutto il bene che i miei familiari mi hanno fatto, consapevolmente o meno, laddove effettivamente l’ho ricevuto e nel grado in cui l’ho ricevuto; nel mio caso ho diversi ringraziamenti da esprimere, e ne sono contento.
  3. Che i genitori facciano per principio del loro meglio per crescerci è una cazzata grande come una casa; l’idea che le persone operino il bene semplicemente perché agiscono al meglio di come possono si può applicare meccanicamente anche ad Adolf Hitler, Charles Manson, Erode il Grande e Mario Draghi, quindi risparmiatemela, vi prego. Un bravo genitore che si è impegnato a fare il bene dei suoi figli e c’è riuscito merita apprezzamento e riconoscenza, uno stronzo no, e se da questo sono stato danneggiato e ancora non sono riuscito a superare il danno subito, è giusto e opportuno che io gli chieda ammenda, riparazione e retribuzione.

Nella lingua italiana la gratitudine è sinonimo di riconoscenza, con un’accezione più intima e cordiale rispetto a questa, ed è un sentimento di affetto rivolto a chi ci ha fatto del bene, attivato dal ricordo del beneficio ricevuto e portatore del desiderio di poterlo ricambiare. Il termine è appropriato dunque solo quando si è ricevuto un bene e implica, per definizione, un rapporto di sudditanza o inferiorità rispetto a chi il bene ce lo eroga. Insomma, la gratitudine racchiude il riconoscimento che la fonte del controllo sulla propria vita è temporaneamente passata a qualcun altro o qualcos’altro, dunque dovrebbe essere espressa solo quando le condizioni sono realmente di beneficio personale, senza mai eccedere con essa per non costruire un rapporto squilibrato che può evolvere nell’inerzia personale e nella dipendenza verso i doni degli altri. Figura archetipica della riconoscenza pervasiva è infatti il buon mendicante; noi gli facciamo l’elemosina, unico suo mezzo di sussistenza, e lui si profonde in ringraziamenti e benedizioni. Per quanto sia simpatico, non credo che nessuno voglia prenderne il posto.

Facciamo così, provate a sostituire la cantilena “io sono grato all’universo/ai miei genitori perché sono nato, perché ho mangiato, perché ho bevuto, perché c’è il sole, i gatti, ecc. ecc.”, con la formula: “Io sono grato a me stesso per tutte le volte che ho fatto il mio bene aiutandomi a reagire nei momenti di difficoltà e imponendomi scelte di saggezza che mi hanno portato ad un’esistenza migliore. Sono grato anche a coloro che mi hanno insegnato a vivere e a quelli che mi hanno aiutato e sostenuto, nella misura in cui lo hanno fatto”. Questa formula include così, in modo implicito, anche figure parentali meritevoli ed eventuali esseri celesti. Poi mi dite con quale frase vi sentite meglio, ok?

 

ATTO SECONDO, SCENA SECONDA: LA RELIGIONE DEGLI ANTENATI

 

Insieme al diffondersi di innumerevoli credenze new-age, che sono fondamentalmente un’accozzaglia di superstizioni e tradizioni afferenti al neo-paganesimo, si sono affermate le cosiddette “costellazioni familiari”, che si definiscono come una tecnica di analisi e terapia di gruppo messa a punto da Bert Hellinger che riprende aspetti dell’ipnosi eriksoniana, dello psicodramma moreniano e della terapia gestaltica di Perls. Tale tecnica, tramite rappresentazioni di temi familiari messe in scena dai partecipanti, li connetterebbe a un campo informazionale posto al di là del tempo nel quale rimangono registrati tutti gli avvenimenti accaduti in una determinata famiglia; l’acquisizione della consapevolezza di tali influssi metafisici e la reazione ad essi da parte dei partecipanti avrebbe un effetto terapeutico sugli stessi. Usiamo le parole dei praticanti stessi per illustrare la faccenda, tratte dalle prime pagine del sito “costellazionifamiliariesistemiche.it”:

 

“La felicità fa paura. Ti dirò una cosa riguardo alla felicità. La felicità viene vissuta come pericolosa, perché rende soli. Invece con il problema e con l’infelicità si è in compagnia. Il problema e l’infelicità sono connessi ad una sensazione di innocenza e di fedeltà. La soluzione e la felicità, invece, sono connessi ad una sensazione di tradimento e di colpa. Perciò la felicità e la soluzione sono possibili solo se si affronta questa colpa. Non che la colpa sia ragionevole, eppure viene vissuta come tale. Per questo il passaggio dal problema alla soluzione è così difficile. Bert Hellinger

Per sua affermazione, la vita di ognuno è condizionata da destini e sentimenti che non sono veramente propri e personali; anche malattie gravi, il desiderio di morte e problemi sul lavoro, possono essere dovuti a irretimenti del sistema-famiglia e possono essere portati alla luce attraverso il processo delle Costellazioni Familiari. […] Nella famiglia, in particolare, assumono importanza nel creare disfunzioni e disturbi le confusioni fra ruoli e funzioni adulte ed infantili: ad esempio la funzione di un padre assente svolta impropriamente da un figlio maschio che, facendo un salto generazionale, diventa il marito-figlio della madre; oppure un figlio che addirittura vuole insegnare ai propri genitori come essere genitori, eseguendo un doppio salto generazionale andando a ricoprire il ruolo proprio dei nonni.

Nella terapia familiare e sistemica l’individuo non è mai considerato come un elemento singolo ma, al contrario, egli è parte di un preciso contesto di relazioni. […] La fondamentale intuizione di Bert Hellinger, lo scopritore delle Costellazioni Familiari, è che ogniqualvolta un membro della famiglia venga escluso o dimenticato a causa di un destino difficile, ciò costituirà un problema che si ripercuoterà con enormi conseguenze sulle successive generazioni finché l’elemento escluso non verrà riportato al suo posto nel nucleo di appartenenza. In un sistema la singola individualità non è importante di per sé, ma in funzione di qualcosa di più grande, il sistema appunto. Enormi forze vengono coinvolte in questa dinamica, al di là di qualsiasi limite di comprensione da parte nostra. A parte quella che tradizionalmente definiamo come ‘anima’, sembra esistere un’anima più grande che unisce i vivi ai morti o – meglio – un’“Anima Familiare” che connette i membri vivi ai defunti [Sic!]. Il sistema famiglia comprende: bambini (inclusi bambini abortiti, nati morti o prematuramente morti); genitori con i rispettivi fratelli e sorelle; nonni; bisnonni; trisnonni; avi precedenti; chiunque abbia aiutato o sostenuto la famiglia: precedenti partners dei genitori o dei nonni, tutti quei benefattori che in vita o in morte portarono vantaggi anche economici alla famiglia; vittime di violenze o omicidi perpetrati da qualsiasi membro della famiglia.

L’albero genealogico, visto come un’Anima Familiare, o un Inconscio Familiare, è modellato da qualsiasi tipo di esperienze più o meno drammatiche vissute dai suoi membri. Ogni persona dell’albero eventualmente esclusa riapparirà sotto la forma di sofferenza, o più spesso, come sintomo fisico di una malattia. Se un fratello o una sorella sono morti o dispersi in guerra, se un bambino muore in tenera età o una donna muore durante il parto, un altro membro della famiglia tenderà nelle generazioni successive a sostituire inconsciamente il membro rimosso imitando il suo destino, esprimendo le sue emozioni o i suoi sintomi, o cercherà di seguirlo nella morte. Se qualcuno nel passato non si è preso la responsabilità di una grave colpa, un bambino cercherà successivamente di pagarne il prezzo, con la sua salute, la sua felicità, il suo successo nella vita.”

 

Seee… l’anima de mi’ nonno in carriola! Scusatemi l’esternazione becera (ed è la sopravvissuta di innumerevoli esternazioni assai peggiori), ma alla fine della lettura del testo sopra mi è uscita proprio dal cuore; sono una brutta persona, lo so, sono in cammino e un giorno sarò migliore, io mi amo e mi accetto profondamente per quello che sono e mi perdono, spero possiate farlo anche voi... Ma in base a quanto riportato sopra, se un mio lontano avo giapponese in un qualche momento del 1400 fosse stato messo a morte dall’imperatore per aver scorreggiato durante uno spettacolo di teatro Nō e avesse subito giustamente per questo la damnatio memoriae, io cosa sarei diventato oggi, una drag queen?!? …Scusate, il mio cammino è ancora lungo e, reazioni scomposte a parte, questa presentazione delle costellazioni familiari mi fa comprendere come l’impianto teorico su cui si regge questa disciplina sia erroneo e in malafede; spero non me ne vorranno i miei amici fan delle costellazioni, ma la faccenda ha una sua serietà e richiede chiarimento.

È erroneo perché distorce il concetto di campo morfico attribuendogli proprietà che non ha. Molti semi-colti, in realtà ignoranti come zucche, pensano che la forma delle cose sia dovuta esclusivamente alle proprietà atomiche e subatomiche della materia, ignorando che Louis De Broglie, David Bohm e Rupert Sheldrake, fra gli altri, hanno dimostrato che l’universo (i sassi a cui quelli di prima sono grati) assume la sua forma dinamica ed evolutiva poiché guidato da un campo sottostante di natura elettromagnetica e quantistica emesso durante il Big Bang e sottostante ad esso. Gli oggetti interni al campo assumono la loro forma propria per effetto dello stampo energetico, ma gli accidenti trasformativi che gli enti subiscono modificano il campo stesso, così che i nuovi oggetti della stessa categoria che verranno in essere porteranno con loro una sorta di memoria di quanto accaduto ai loro simili; questo vale per gli atomi, i sistemi stellari e gli organismi viventi, umani compresi. La funzione principale del campo morfico è, oltre quella di guidare lo sviluppo dinamico, di tendere a standardizzare i modelli di forma nell’universo emanato così che nonostante l’espansione spazio-temporale il cosmo mantenga una sua struttura ordinata e uniforme. In buona sostanza un campo morfico informa i processi (ad esempio l’intelligenza o l’accrescimento osseo), non i contenuti (cioè le conoscenze o le malattie dello stomaco), ed orienta le potenzialità favorendo percorsi specifici a scapito di altri, senza determinarli in modo rigido (ad esempio favorisce la tendenza dei lupi ad agire in branco, ma non impedisce che uno di loro possa divenire un cacciatore solitario). Roba come le esperienze familiari plurigenerazionali non vengono registrate dal campo morfico, semmai lo sono certe tendenze biologiche (tipo la sopportazione di temperature rigide) o psicologiche (tipo l’estroversione piuttosto che la facilità ad apprendere una competenza specifica).

Ciò di cui parlano Hellinger e i costellatori sono quindi concetti religiosi, non razionali o spiegabili in termini di fisica o psicologia, afferenti principalmente all’animismo e alle teorie di Rudolf Steiner, e la malafede viene fuori nel non riconoscere esplicitamente l’ascendenza di queste concezioni sulle loro affermazioni. Nel 1904, Steiner, influenzato dalle idee di Madame Blavatsky e della teosofia, ha immaginato che l’etere, così com’era concepito dagli induisti, ovvero come “Akasha”, per la sua capacità di contenere ogni evento dello spazio e del tempo funzionasse pure come una sorta di biblioteca universale di tutte le conoscenze del mondo, da lui definite la “cronaca di Akasha”. Già dagli anni ‘50 esoteristi e new-agers hanno riformulato il concetto di Steiner come “registri akashici”, i quali conterrebbero ogni esperienza umana passata, presente e futura, dunque anche tutte le faccende familiari di cui parlano i costellatori; l’anima familiare sopra descritta allora non sarebbe altro che un aspetto specifico dell’Akasha. Anche l’idea che le colpe dei padri ricadranno sui figli è un tema religioso afferente tanto all’ebraismo con la sua “Legge”, quanto all’induismo, che nelle sue forme moderne prevede l’esistenza di un karma familiare e addirittura di gruppi più estesi, come il karma di città o nazioni.

Parliamo ora dell’animismo come fonte delle costellazioni. Tutti sanno che Hellinger, prima di spretarsi, ha vissuto con gli Zulù per sedici anni facendo l’insegnante in quanto sacerdote missionario; quello che le persone di solito ignorano è che gli Zulù, all’epoca in cui Hellinger stava con loro, ancora praticavano una religione animista che riteneva che Dio fosse raramente coinvolto negli affari umani e avesse delegato l’amministrazione dei viventi ai loro antenati, cioè ai trapassati di ogni generazione precedente all’attuale. Questi antenati, secondo gli Zulù, mandavano malattie e disgrazie alle persone per punirle quando non rispettavano gli standard etici della comunità, fossero personali, familiari o tribali, o ne offendevano la memoria, ad esempio non celebrando i riti adeguati al momento del trapasso e nelle commemorazioni periodiche. Lo stato di inquinamento e squilibrio spirituale, generatore di disturbo fisico e mentale, doveva quindi essere riparato dallo sciamano Zulù o “sangoma” che, dopo aver divinato la causa esatta della malattia, conduceva rituali comprensivi di danze e rappresentazioni sacre, le quali coinvolgevano la tribù o il gruppo familiare interessato dagli antenati offesi, così da placare le anime irate ripristinando la salute, sempre che il comportamento proibito non venisse ripetuto.

Caro Hellinger, altro che intuizioni e idee originali, ti ho fatto tana! Le costellazioni altro non sono che esorcismi rituali camuffati da pratica psicologica, e in quanto tali potremmo anche semplificarne la procedura; ad esempio i “guruwa” dei Tharu nepalesi per scacciare gli spiriti degli antenati che rompono le palle ai vivi fanno un bel totem di legno, lo decorano, gli sgozzano davanti un pollo mentre snocciolano qualche supplica e alcune minacce e poi tutti a casa, lo sciamano incassa una ciotola di riso, un po’ di yak essiccato e due spicci. Noi moderni cattolici possiamo poi beneficiare di una forma ancora più semplice ed economica (e non lo so eh) di rituale anti-antenato, cioè una bella messa commemorativa con preghierina di alleggerimento delle pene purgatoriali: co’ trenta euro il prete non si sbaglia e il nome del morto lo dice bene, cinquanta e fa un sospiro affranto mentre lo nomina, duecento e ci scappa pure una lacrimuccia asciugata da fazzoletto ricamato in oro mentre ci ricorda che era una brava persona, poi quattro rosari con l’immaginetta del defunto davanti e passa tutto, pace fatta con l’antenato che va a sollazzarsi nei pascoli celesti lasciando in pace i viventi.

So già che i fan delle costellazioni per convincermi/convincersi della bontà della pratica citeranno innumerevoli casi di fenomeni semi-sovrannaturali accaduti nelle costellazioni che hanno poi risolto la vita alla gente. Non nego affatto tali accadimenti, dico solo che gli stessi fenomeni avvengono anche in pratiche con presupposti completamente diversi, come le ipnosi regressive o i festival religiosi evangelici e che, quando sono reali e non immaginati, sono appunto eventi sovrannaturali e non psicologici o sociali o di natura razionale, analoghi all’azione di formule magiche e danze rituali sciamaniche (e io sono uno che crede alla magia e alle forze sovrannaturali).

Ritengo invece, col giudizio più severo dell’uomo moderno ed evoluto, che attribuire l’origine dei propri problemi attuali a dinamiche familiari ormai estinte, addirittura di tipo spirituale-metafisico, disintegri la fonte del controllo personale e renda le persone totalmente sottomesse a una credenza che non le farà mai sentire libere, perché per definizione l’Io individuale diviene solamente un epifenomeno dell’anima familiare. Il locus of control passa dal Sé agli antenati e ai costellatori, i primi come elementi causali e i secondi come strumenti risolutivi, perché senza la magia della costellazione, nella nostra prospettiva materialistica e atea, come si placa altrimenti lo spirito inquieto dell’antenato?

Anziché stare a pensare all’avo non seppellito, al gemello fantasma, alla bisnonna ripudiata e morta povera e alle malattie veneree che ha avuto vostro padre da ragazzo e a come esorcizzare le conseguenze nefaste di tutto questo interpretando ruoli, facendovi possedere dall’anima de’, rotolandovi per terra e piangendo fra sconosciuti, provate semplicemente a dire: “Io sono io, nessuno determina la mia vita se non me stesso; la storia dei miei parenti non è la mia e non mi riguarda, di ciò che mi hanno trasmesso posso farne ciò che mi aggrada. Il mio passato esiste solo in fantasie e memorie frammentate, le conseguenze delle mie scelte fanno il presente con cui mi confronto, e sono libero di creare il mio futuro attraverso le azioni che compio e le relazioni che coltivo”.

 

ATTO SECONDO, SCENA TERZA: ADORAZIONE FAMILIARE O LIBERTÀ PERSONALE

 

Nel mondo animale la famiglia in senso lato esiste al fine di una procreazione meccanica, innescata da fattori istintuali, volta al proseguimento della specie, e l’allevamento dei piccoli ha l’unica funzione di istruirli su specifiche tecniche di sopravvivenza, dopodiché ciao, se ti avvicini ti mozzico. Il cosiddetto istinto materno di natura animale è tutt’altro che tenero, e non esclude l’infanticidio e addirittura il cannibalismo filiale (presente in poco più dell’1% delle specie di mammiferi) nel caso di una prole difettosa o troppo numerosa o in tempi di magra. In natura la tenerezza per i cuccioli non è molto diffusa; i simpatici scimpanzé bonobo uccidono i piccoli che trovano sprotetti (pensavate che trombassero e basta eh?), mentre il leone che diviene capobranco ammazza tutti i leoncini in modo che le femmine tornino fertili e generino solo figli suoi; altro che Simba, Mufasa e compagnia cantante.

Fra gli umani primitivi la generazione di figli era necessaria alla sopravvivenza, data l’elevatissima mortalità che le battute di caccia e la durezza del vivere comportavano nelle popolazioni nomadiche. Come negli altri animali la cui prole non nasce già abile alla sopravvivenza (tipo gli uccelli), la nostra richiede accudimento; affinché gli adulti siano motivati alla sua cura e la figliolanza sia orientata ad acquisire i modelli comportamentali adulti, Dio o la Natura ha pensato bene di creare il sistema dell’attaccamento-accudimento, una dimensione affettiva che rende felici gli adulti di allevare i piccoli e questi di imparare dai grandi. Ma non vi ingannate, questo sistema motivazionale specie-specifico di natura affettiva, espresso geneticamente, non ha niente a che vedere con il sentimento di amore che alcune persone hanno la fortuna di sperimentare nel corso della loro vita, il quale può, come no, essere presente nel rapporto fra genitori e figli.

Sorvolo sull’origine della specie umana per non turbare i semplici, ma specifico che a differenza degli animali le femmine umane non vanno in estro, cioè in calore; fatti salvi i casi di sottomissione violenta, si accoppiano quando desiderano e possono anche cercare di evitare una gravidanza e di non portarla a termine, e nemmeno hanno un istinto che impedisce loro di dare via un figlio neonato. Avere figli è quindi un comportamento motivato e rivolto a un fine, non istintuale, e non implica la comparsa automatica di sentimenti di amore vero verso di loro, come non necessariamente gli stessi si sviluppano dal figlio verso il genitore. È dunque opportuno chiarire in cosa si distinguano l’amore propriamente detto, l’attaccamento affettivo e la vera e propria dipendenza.

Nell’amore la persona ha un suo equilibrio autonomo, ma sente che l’altro gli arricchisce la vita in un modo che da solo non potrà mai ottenere e così se ne innamora; se l’amore è reciproco inizia una vita condivisa orientata ad un destino comune che sostituisce parzialmente il Noi all’Io, e ognuno dei due partner si spende per la soddisfazione dell’altro; il rapporto è paritario, il conflitto è risolto col dialogo e il vissuto emotivo tipico è la gioia. L’attaccamento affettivo avviene nei giovani verso le figure che li accudiscono; in esso si sperimenta un’attrazione e un bisogno dell’altro motivato dalla necessità di consolidare un Io non pienamente autonomo, poiché in sviluppo e dunque richiedente attenzioni, protezione, affetto e guida; il rapporto è sbilanciato e chi vive l’attaccamento desidera compiacere la fonte dell’accudimento per imparare a vivere, imitando un modello sentito come affidabile; a seconda dei casi, l’attaccamento viene connotato da gioia come da rabbia o angoscia, dipende dall’accudimento ricevuto, se adeguato e rispettoso o trascurante e maltrattante. La dipendenza affettiva è invece una condizione patologica dovuta ad una personalità debole, vulnerabile e incompleta, che per riempire i suoi vuoti deve parassitare l’esistenza di un altro, al quale in cambio offre completa e totale sottomissione, almeno fino a quando una figura migliore non lo sostituisce; il rapporto è completamente squilibrato e svantaggioso per la persona dipendente, ma il conflitto viene eluso sopprimendo i propri bisogni e il vissuto di chi dipende oscilla fra ansia, rabbia e tristezza, senza mai reale benessere.

Fare figli per necessità o costrizione, per compiacere altre persone, per assecondare norme sociali, sfogare un istinto biologico o per riempire un vuoto, non innesca l’amore verso di loro; spesso comporta anzi trascuratezza verso la prole, quando sentita come ostacolo in una dinamica di dipendenza di un genitore verso l’altro o una responsabilità soverchiante, se il genitore ha una personalità immatura. Di conseguenza, l’attaccamento dei figli verso i genitori, una volta che questi raggiungono l’età adulta, in assenza di una stima per il parente non matura in amore filiale, e può degenerare nell’odio verso di lui, nel distacco completo dal genitore o nella dipendenza da lui.

Un genitore sviluppa verso un figlio amore puro quando questo è il frutto di un amore di coppia solido e reciproco che la sua presenza viene ad arricchire, ed egli diviene così un oggetto transizionale sul quale viene proiettato l’amore fra i genitori, che si assomma al loro istinto di accudimento. Analogamente, l’amore vero di un figlio verso un genitore nasce quando, partendo da una gratitudine dovuta alla percezione di aver ricevuto da questo affetto, attenzioni, stima, rispetto e dedizione, si impara a conoscere il genitore in quanto adulto apprezzandolo per ciò che è, non più per quello che ha fatto, e sentendo che è possibile iniziare con questo uno scambio dialogico che arricchisce entrambi.

Se per caso ve lo state chiedendo, gli interessanti esperimenti sociali dei kibbutz israeliani, come gli studi sulle adozioni, dimostrano peraltro che le dinamiche familiari per innescarsi non hanno bisogno della consanguineità, ma solo della convivenza prolungata degli individui nella stessa abitazione. L’abitazione comune è infatti l’elemento identitario imprescindibile per poter definire due o più persone in relazione una famiglia.

Tornando dalle dinamiche sentimentali fra genitori e figli allo sviluppo dell’istituzione familiare, la transizione dei nostri cacciatori nomadi verso l’agricoltura stanziale ha posto in essere il problema del possesso del territorio, dei mezzi di produzione e della ricchezza generata, che non potevano essere amministrati da una persona sola nell’arco della sua vita, analogamente a quanto accadeva nelle tribù primitive. La famiglia diviene quindi una struttura aziendale che trasmette le sue proprietà da una generazione all’altra, riproducendo al suo interno i rapporti di potere fra le istituzioni della società entro la quale si sviluppa e di cui veicola e riproduce i modelli culturali. Come in una civiltà antica ci sono al vertice le divinità (chiamiamole così), sotto di loro i re-sacerdoti da esse prescelti (in seguito i re e i sacerdoti in categorie distinte), quindi una pletora di padroni gerarchizzati che possiedono e amministrano tutto, popolani compresi, così nella famiglia abbiamo un patriarca o capo assoluto, che possiede le sue donne e i suoi figli, come anche servitori e schiavi, animali domestici, oggetti e terreni, a cui segue una variegata gerarchia che vede dopo di lui il primogenito maschio, in relativa parità la moglie del patriarca e gli altri figli maschi, e infine le figlie femmine.

Se pensate che stia dicendo un’eresia, ricordo a tutti che il termine “famiglia” proviene dal latino “familia”, a sua volta derivato da “famulus”, ovvero servo o schiavo; letteralmente, la parola indica quindi un “gruppo di servi e di schiavi patrimonio del capo della casa”. Per molto tempo, ricordiamo, come per gli schiavi, la proprietà delle donne e dei figli all’interno della famiglia è stata equiparata a quella degli animali domestici e delle cose, tanto che negli accordi matrimoniali fra famiglie le donne erano di fatto comprate o scambiate e i figli potevano essere destinati ai percorsi più diversi, oltre che dati via senza troppi problemi. La parola famiglia è quindi associata a una forma-pensiero, un’eggregora, che implica il possesso e la dominanza come le caratteristiche centrali del concetto, e la struttura dei rapporti al suo interno come una gerarchia di rapporti di forza prima che di scambi affettivi.

I tempi cambiano, ma la divisione sociale fra élite di padroni onnipotenti, governanti fantoccio manovrati da questi e masse di schiavi sacrificabili (noi) rimangono immutate, e così identiche si mantengono pure le dinamiche del potere intrafamiliare, caratterizzate da incessanti conflitti e tensioni fra i membri, ciascuno dei quali intento a sfruttare la quota e la tipologia di potere che detiene. In una famiglia infatti c’è chi detiene il potere della proprietà dei beni e delle persone, quello economico di produzione del reddito, il potere sessuale, quello affettivo, quello di soddisfare le aspettative di elevazione sociale, o di soddisfare le richieste di incarnare modelli e valori presenti nella famiglia.

La famiglia è infatti sia il mezzo di trasmissione che una società utilizza per trasmettere alle persone i suoi modelli culturali, sia il luogo dove tali modelli vengono affiancati ad altri che aumentano il conformismo sociale o viceversa producono svariate forme di devianza. In ogni caso, per cercare di arginare la natura conflittuale propria del sistema familiare, la quale viene amplificata anziché attenuata dalle dinamiche affettive al suo interno, che implicano prevalentemente vissuti di invidia, gelosia, rabbia e ansia, la società umana ha inventato innumerevoli concezioni di etica sociale e morale religiosa, più o meno indipendenti dai rapporti affettivi fra i membri, che hanno reso tabù la violenza intrafamiliare e l’incesto e giustificato una devozione e una dedizione dei singoli nei confronti del sistema familiare stesso.

L’indebolirsi progressivo delle religioni tradizionali e delle grandi ideologie politiche e sociali, e dunque delle visioni del mondo che veicolavano, ha comportato una destrutturazione progressiva del mito familiare, e senza interdizioni culturali e condizionamenti inibitori sono naturalmente esplosi i conflitti, prima taciuti, fra congiunti, tanto che costituiscono oggi in Italia oltre il 40% delle cause civili in essere. Anche la disintegrazione della famiglia allargata e la frammentazione in famiglie nucleari, a volte costituite solamente da una coppia convivente, non ha alleggerito il problema; anzi, da clinico con quasi vent’anni di esperienza, posso dire pacificamente che la famiglia all’italiana ha prodotto un’infinità di sofferenza e malattia mentale alle persone. Altro che sindrome degli antenati, qui i più pericolosi sono i vivi che coabitano con noi, soprattutto se gli vogliamo bene!

Proprio perché coniugi e figli vengono percepiti subconsciamente come proprietà, e non come persone, ci si permette di abusarne in modi indecorosi con tutte le conseguenze del caso; i vecchi vampirizzano gli adulti che a loro volta ne sfruttano le risorse economiche, i coniugi si maltrattano a vicenda mercanteggiando ogni cosa, dall’allevamento dei figli alla disponibilità sessuale, i genitori sfogano sui figli le loro frustrazioni oppure li trattano come animali da compagnia finché sono piccoli, poi li abbandonano completamente quando non li sentono più controllabili e sottomessi, i figli li puniscono di ritorno distruggendosi la vita oppure riversando su di loro atteggiamenti violenti una volta diventati grandi. E tutto questo perché ciascuno dei membri del gruppo familiare non ha un’esistenza personale su cui investire e ha delegato al clan la sua riuscita nella vita.

Il problema di diventare adulti e uscire dalla famiglia, oppure di coesistere al suo interno in modo costruttivo e positivo, si manifesta infatti nel dimostrare il proprio valore e la propria capacità di affermarsi nella società come individui, conquistandosi un proprio ruolo, sia esso quello di lavoratore capace, leader eccellente, partner desiderabile o genitore modello. Se non ce la fai sei un fallito, o almeno ti ci senti se hai un minimo di dignità, e quel che è peggio è che questa sconfitta viene posta a confronto con i risultati ottenuti dai tuoi fratelli, dai tuoi genitori o dai tuoi stessi figli. Ne consegue che la maggior parte della gente tende a rinunciare ad un’autorealizzazione dall’esito incerto rimanendo nell’alveo della famiglia e rivolgendo le sue aspettative di crescita personale all’interno di essa. Quando va bene assume così un ruolo di servizio (badare ai vecchi, allevare la prole, gestire la casa), quando va male ne diviene un parassita (l’invalido da assistere, il figlio che non cresce mai, l’intellettuale in attesa della grande occasione), e nei casi peggiori ne diviene il distruttore (individui pazzi, violenti, suicidi, tossicodipendenti).

La fonte del controllo viene quindi spostata dal Sé alla famiglia, che con le sue necessità senza fine richiede un incessante sacrificio personale, liberando così dalla responsabilità della promozione personale e dal rischio del fallimento che porta con sé. La supercazzola dell’amore che si esprime nell’immolarsi per gli altri non regge, in quanto sappiamo che questo nobile sentimento è la forza che promuove le persone rendendole libere e autonome, e certo non l’invischiamento che le affossa vincolandole ad obblighi e doveri che esistono solo nella testa di chi li subisce. Anzi, l’amore verso i propri familiari trova la sua forma migliore solo nel distacco da essi, che rende le persone libere di scegliere se frequentarsi o no. Rincontrarsi per il solo piacere di rivedersi dopo lunghi periodi di assenza, come avviare la comunicazione con un congiunto in assenza dell’abitudine a farlo, dunque sorprendendolo poiché motivati solamente dalla curiosità e dal desiderio di conoscere cosa sta facendo della sua vita, sono gesti che riempiono il cuore di chiunque.

Diversamente da questa libertà di incontrarsi appena descritta, sentite cosa vi suscitano le seguenti affermazioni: “La tua povera vecchia madre si è sacrificata per te, vai e vivi mentre io sto qui a subire le violenze di tuo padre!”, “Sei solo un peso per tutti noi, sarebbe stato meglio se non nascevi/eri già morto”, “Perché non fai come tuo fratello/sorella?”, “Così però nonno si dispiace”, “Come ti permetti di rispondere a tuo padre/tua madre!?”, “Ti prego, non uscire stasera, rimani a farmi compagnia, possiamo guardare il televisore insieme”, “Guarda cosa mi hai fatto fare, non sarei costretto a picchiarti/sgridarti se non mi facessi perdere la pazienza”, “Mi raccomando, rimani sempre il mio cicciolino amoroso”, “Ma che figura mi fai fare, rispondi alla maestra/esci da casa vestita in questo modo/frequenti quella gentaccia?”, “Puoi uscire, ma devi tornare a casa a una certa ora, sennò io non dormo”, “Papà, io mi chiamo Anna, non Mariella! E lo so, ma per me le donne sono un po’ tutte uguali e le chiamo Mariella, mica posso imparare tutti i vostri nomi!”, “Quando avrai finito il liceo ti iscriverai a Medicina/Giurisprudenza/Ingegneria, così ti formerò io e prenderai in mano lo studio di famiglia”, “Sei un alcolizzato schifoso, la rovina di questa famiglia!”, “Tu non mi capisci, non capisci mai niente, sei solo una vecchia rincoglionita, e papà passa tutto il giorno in silenzio a guardare il tablet, che cosa volete saperne di me?”. Angoscia eh? Ma questa è la nostra realtà familiare abituale, un abisso di dominanza/sottomissione e di indifferenza insensibile, solo raramente rischiarata dalla luce dell’amore.

Quando una persona sceglie di limitare sé stessa danneggiando il suo equilibrio interiore e la sua realizzazione sociale, nascondendosi dietro gli obblighi familiari o i vincoli affettivi con i congiunti, il suo locus of control è divenuto esterno e il suo percorso di crescita diviene minacciato, soprattutto se è consapevole di questo conflitto fra la promozione di Sé e l’invischiamento familiare (e ricordo che non c’è alcuna differenza fra famiglia allargata e coppia senza figli). Raggiunta l’età della ragione, fra i dodici e i quattordici anni, la sottomissione alla famiglia è sempre una scelta, mai una costrizione, frequentemente motivata dalla paura di non potersi fare una vita autonoma sul piano psicologico e relazionale. Chi sceglie la sottomissione familiare avendo poi una struttura dell’Io più sana e robusta rispetto a quella dei suoi parenti, diventerà molto probabilmente quello che nella terapia sistemico-relazionale si chiama “portatore del sintomo”, cioè un individuo che manifesta sofferenza psicologica e problematicità comportamentale, non generate direttamente da lui, ma reattive alle inadeguatezze relazionali dei suoi conviventi.

D’altro canto, è pur vero che la propaganda sulla famiglia a scapito dell’auto-determinazione la fanno tutti, dal Governo al Papa, dagli intellettuali di sinistra (sì, lo so, fa ridere) ai fascisti più duri, passando per gli hippies e i movimenti lgbt+ e i sociologhi e gli psicologi un po’ rétro, e quindi è proprio dura riuscire a promuoversi senza sentirsi in colpa, senza credere di uccidere una fatina ogni volta che si dice “no” a un familiare… Ognuno di noi, come sempre, deve scegliere se onorare il padre e la madre perché si prolunghino i suoi giorni nel Paese che gli è stato dato in sorte, oppure lasciare che i morti seppelliscano i morti e abbandonare casa e famiglia per una nuova avventura, senza mai guardarsi indietro, perché sulle scelte fatte non si può tornare e il solco di un aratro non si cancella.

Voi che scegliete?