Locus of control, prima parte

 

Finalmente sto seduto su una veranda, in mutande e maglietta, piacevolmente rinfrescato da una notturna brezza intensa che attraversa la campagna nella quale la mia isolata dimora vacanziera si trova immersa. Qui, a pochi chilometri dal mare, le eco-cazzate e il chiacchiericcio della gente stordita con e senza elmetto e/o mascherina non arrivano manco da lontano; di giorno fa caldo e la sera fa fresco e c’è una grande pace, insomma si sta da Dio, almeno prima che lo mettessero in croce. Non pensavo che la vacanza sarebbe mai arrivata, ma invece è successo, e di questo sono grato all’universo, come usano dire oggi gli hippies.

Naturalmente ciò non interrompe la mia incessante riflessione sul senso della vita e su come bisogna arrivare ad una buona morte, ma la breve interruzione lavorativa mi permette di guardare il mondo che gira intorno a me, e quello che si agita dentro di me, con una quiete diversa. Aggiungiamo pure che il mio cellulare è dal riparatore perché finito improvvidamente in mare, e il quadro di distanza siderale dalla mia vita ordinaria diviene così completo.

Ciò nonostante, come un carabiniere, alla fine sono sempre in servizio, pure mio malgrado, e faccio automaticamente e istintivamente quello che se mi chiedono se lo faccio nego mentendo spudoratamente, cioè “sei uno psicologo? Allora mi starai analizzando!”, asserito con l’imbarazzo compiaciuto di chi desidera sentirsi finalmente importante per qualcuno solo per ciò che è, e io lo nego con altrettanto finto imbarazzo e in fondo non mento davvero, perché nel momento in cui me lo chiedono effettivamente già non lo sto più facendo, perché ho ottenuto tutte le informazioni che mi interessavano nella prima manciata di secondi in cui ho iniziato a osservare il soggetto nel mio campo visivo, e dunque la mia rappresentazione mentale di questa persona è già fatta e finita nel momento in cui essa si accorge di essere guardata. E spesso osservo cose interessanti, che ampliano la mia comprensione della vita umana e correggono o confermano le mie prospettive ontologiche e soprattutto escatologiche, che poi sono le uniche che veramente mi interessano, ma poiché come è in alto così è in basso, anche quelle psicologiche un certo valore ce lo hanno e quindi mi spendo in un certo grado pure su di esse.

A tal proposito mi trovavo alla serata di apertura di un festival estivo locale, nel quale si esibivano i ragazzi di un prestigioso stage di danza di rilevanza internazionale, terminato qualche giorno prima, che apriva ai migliori fra loro la possibilità di inserimento in importanti compagnie di professionisti della danza. Fra i ballerini c’erano quindi vari livelli di bravura, dal decoroso al virtuoso al genio già manifesto in giovane età. Io mi trovavo in prima fila, con la frittura di paranza e il limoncello in fase di digestione, e pazientemente aspettavo l’inizio dello spettacolo. Intorno a me, spettatori di vario genere: perlopiù vecchi ricchi evocati dalla location fighetta dove si svolgeva il tutto, qualche sparuta persona mossa da interesse artistico, diversi animali che non avevano di meglio da fare e molti familiari dei ballerini. Con la mia solita fortuna, una rappresentanza delle ultime due categorie era nei posti alla mia destra: una coppia di genitori con una bambina che avrà avuto circa sei anni, la sorella della donna, che ritengo fosse la madre di una delle ballerine, e due coppie più anziane, una dei genitori di entrambe le donne e l’altra non so, parenti non identificati. A giudicare dall’accento e dall’eloquio, provenivano da un territorio de-industrializzato e non scolarizzato del sud Italia che non avrei saputo individuare, e che mai vorrei essere in grado di riconoscere.

Il maschio era una branda: centoventi chili di muscoli per quasi due metri di altezza, aspetto belloccio da cattivo di un film di Nino D’Angelo, testosterone strabordante e un quoziente intellettivo non superiore a ottanta punti. Ridacchiava e commentava ad alta voce video di boxe e sketch comici che scrollava stupidamente sul suo cellulare mentre, di fronte al suo capo chino e indifferente, le eccellenze della danza esprimevano attraverso il loro corpo stati interiori che questo individuo non avrebbe potuto sperimentare nemmeno fra due incarnazioni. I video che l’energumeno trovava più interessanti venivano poi gioiosamente mostrati alle due donne accanto a lui, che passivamente lo assecondavano, non mostrando alcuna reale vivacità intellettiva o luce interiore, tantomeno una personalità, figuriamoci interesse per una rappresentazione artistica; ritengo anzi che la moglie di lui soddisfacesse con ragionevole certezza molti criteri della demenza, essendo stolida e completamente desintonizzata su quanto le accadeva intorno. Ad amplificare il fastidioso disturbo prodotto dall’idiota, interveniva sua figlia, la bambina suddetta, di incredibile vivacità, simpatia e intelligenza che, incapace di rimanere seduta su qualsivoglia superficie, voleva a tutti i costi partecipare allo spettacolo di modo da essere notata e apprezzata dai suoi spregevoli parenti, che non avendola chiaramente educata in alcun modo, cercavano di ghermirla e tenerla ferma per impedirle di disturbare e interrompere lo spettacolo, mentre il padre la incoraggiava ripetutamente, rinforzandola nel suo disadattamento e determinando così il suo futuro fallimento nella vita, dato che senza disciplina e autocontrollo ogni potenziale è destinato a perdersi per sempre. Cara bambina, la tua unica speranza di combinare qualcosa è che Gesù ti metta una mano in testa e ti faccia scappare di casa oppure che i tuoi familiari spariscano tutti nel nulla contemporaneamente, inghiottiti dalla terra, ma temo per te che ciò non avverrà mai, quindi ciccia, ridi ora finché puoi, tua madre e tua zia hanno smesso di farlo molti anni fa, tu a diciotto anni ti sposerai nella chiesa al centro del paese con un clone di tuo padre e qualche anno dopo sarai un elettrodomestico con due figli, altro che guardatemi guardatemi e brava a papà.

Dopo un certo tempo che l’esibizione si svolgeva, disturbata da questi individui che pure erano lì per una delle partecipanti, a un certo punto la bambina che-non-sa-cosa-la-aspetta si annoia lei stessa di rompere le palle a tutti e, frustrata dal non essere al centro dell’attenzione, decide saggiamente di andarsi a mangiare un gelato, accompagnata dal padre. Tutto si acquieta, lo spettacolo cresce di intensità e bellezza e, improvvisamente, accade una cosa che mi lascia a bocca aperta. La ragazza parente di questi soggetti, una ballerina minore senza alcun ruolo evidente nello spettacolo, terminata la sua esibizione lascia le compagne e i compagni che continuano con le loro altre coreografie (con vero spirito di gruppo), e raggiunge l’ipotetico zio e la cuginetta che erano appena fuori dalla zona degli spettatori, a un paio di metri a lato del palco, nello specifico una pubblica piazza allestita per l’occasione. Non appena ella si ricongiunge con i due, l’energumeno guarda subitaneamente i suoi congiunti occhi negli occhi, schiocca le dita con la vanga libera dal gelato e con tono fermo, quasi spazientito, dice: “forza, X ha finito, andiamocene!”. Come un sol uomo, gli altri parenti si alzano all’unisono (sempre nel bel mezzo dello spettacolo) e, come un plotone militare, avanzano rapidamente senza esitazione verso il loro generale, che gli volta le spalle sdegnosamente e li conduce fuori dalla nostra vista (altro momento per me di gratitudine verso l’universo). Nessuna esitazione, nessuna protesta tipo “ma voglio vedere la fine dello spettacolo!”, nemmeno un’espressione facciale: automi, addestrati all’obbedienza istantanea e supina probabilmente da generazioni di disprezzo per lo sviluppo dell’individualità. Mi è sembrato per un attimo di star guardando una scena di “Terrore dallo spazio profondo” del 1978, e meccanicamente ho pensato: locus of control.

L’espressione “locus of control” è stata coniata da uno degli innumerevoli psicologi accademici americani che, non avendo mai visto una persona vera in vita loro, nella seconda metà del secolo scorso, chiusi nei loro laboratori universitari, parcellizzavano la mente umana creando divisioni irreali dei suoi processi, con lo scopo tacito di ottimizzare le tecniche che dovevano essere implementate dalla propaganda governativa e industriale (ricordiamo che le università statunitensi sono private e finanziate da enti vari al fine di controllare il popolo a stelle e strisce, perlopiù trasformandolo in un esercito di consumatori idioti e obbedienti, obiettivo pienamente raggiunto). Storia politica a parte, il concetto di “fonte del controllo” risale a Julian Rotter, un comportamentista interessato all’apprendimento sociale, che negli anni ’50 lo descrive come un continuum fra i due poli opposti di interiorità ed esteriorità, su cui si dispongono coloro che attribuiscono i risultati ottenuti alle proprie capacità e coloro che riconducono le conseguenze delle loro azioni a forze esterne incontrollabili. Chi crede di avere pieno controllo della propria vita, sostenendo che sono le proprie scelte a modificare il corso degli eventi, ha una fonte del controllo interna; al contrario, le persone che attribuiscono il loro successo o fallimento a cause esterne, poco controllabili e imprevedibili, hanno una fonte del controllo esterna, e la gente si colloca fra questi due poli in vario grado.

Il concetto ha avuto varie evoluzioni e approfondimenti nei decenni successivi, ma la sostanza non cambia: alcune persone concepiscono la vita come conseguenza delle loro azioni, altre come dovuta alle scelte di terzi, i quali producono gli eventi che vengono subiti, oltreché a forze cosmiche come il destino e la sfortuna. In una concezione psicologica più moderna, che riconosce la centralità dei processi motivazionali sui processi mentali e sul comportamento umano e animale, la fonte del controllo è da intendersi con la scelta, motivata opportunisticamente, di tenersi o delegare la propria stessa capacità decisionale, risoluzione dovuta ad una rappresentazione del proprio Sé come soggetto agente dotato di tale potere volitivo od oggetto ricevente passivo privo dello stesso.

La persona istruita, che non si fa turlupinare dalle supercazzole di una psicologia ignorante della filosofia dalla quale è nata e sempre scollegata dal comune buon senso e dal lessico che lo descrive, comprende la fonte del controllo come ciò che è, ovvero la semplice responsabilità personale, una dimensione morale variamente sviluppata nelle persone che si sentono più o meno conseguenza delle loro scelte e realizzazioni. Insieme al valore che gli individui attribuiscono a sé stessi, noto come autostima, al potere e alle capacità che ritengono di avere sulla realtà, noti come autoefficacia, il senso di responsabilità informa la triade cognitiva personale, costituita dall’idea di Sé, degli altri e del futuro (grazie Aaron Beck, tu sì che da bravo clinico hai scritto qualcosa di utile), la quale orienta le persone verso l’autodeterminazione e la consapevolezza o la schiavitù perpetua e l’assenza dell’Io.

La questione non è di poco conto: ogni pargolo riceve nel corso del suo sviluppo una certa quota di attenzioni e di comunicazioni relative al Sé (“bello di papà”, “sei solo un peso per questa famiglia!”, “prendi esempio da tua sorella”) che lo istruiscono su quanto vale, su cosa può fare (“metti in ordine la stanza!”, “questo no, rimettilo dove lo hai preso”, “come sei bravo a disegnare”) e su quali siano le sue responsabilità (“non è colpa tua, non potevi saperlo”, “hai fatto piangere la mamma”, “ti hanno bocciato perché i tuoi insegnanti sono cattivi”, “puoi farcela perché sei in gamba”). Gli innumerevoli ricordi di queste comunicazioni tendono ad organizzarsi intorno a dei temi centrali, così che le “rappresentazioni generalizzate di interazione” divengono “modelli operativi interni”, ovvero istruzioni su come affrontare la vita che plasmano la personalità di ciascuno di noi.

A titolo di esempio, i bravissimi ballerini solisti presenti nell’esibizione dell’altra sera dovevano credere molto nel loro valore, altrimenti non avrebbero accettato di competere con i loro pari e di esibirsi in pubblico, dovevano avere confidenza nelle proprie capacità corporee, tecniche e artistiche per poter eseguire con scioltezza e padronanza la loro performance, ed evidentemente pensavano che il loro successo professionale e personale fosse mera conseguenza del loro impegno nell’accrescere il proprio talento e nell’essere i migliori a soddisfare le richieste delle compagnie teatrali.

Dalla parte opposta dell’umanità ci sono invece i morti viventi descritti sopra: perché ci sia cieca obbedienza al comando di un’autorità riconosciuta (solitamente il televisore, in questo caso il maschio dominante) è necessaria l’assenza di una percezione di valore personale, di modo che bisogni e desideri privati non interferiscano con la scelta conformistica, uniformante e sottomissiva sollecitata dall’esterno; la mancanza di talenti e capacità, o della convinzione di averli, comporta il conseguente disprezzo e disinteresse verso ciò che è bello, buono e umanamente elevato, poiché appartiene ad una dimensione umana sentita aliena e irraggiungibile, implicante una competizione non affrontabile; la completa sottomissione ad una volontà esterna e ad un sistema di obblighi sociali intra-familiari, sentiti come naturalmente giusti e necessari, libera questi individui da qualsiasi ambizione personale e di conseguenza dal timore del fallimento e della delusione, che tanto affligge noialtri, ma anche da qualsiasi possibile sviluppo del Sé.

Anche il maschio alfa del suddetto branco, in fondo, non era diverso dai suoi gregari, poiché il machismo ostentato era evidentemente compensatorio di insicurezze personali attinenti alla sfera interiore (mi sa pure sessuali, vista la moglie che si era scelto), il disinteresse per ciò che avveniva davanti a lui testimoniava la sua incapacità di capirlo e dunque le sue ridotte potenzialità di interazione con la realtà, e anche il suo essere capobranco lo relegava, appunto, ad essere parte di un gruppo in una dinamica di inscindibile dominanza-sottomissione, tale per cui il padrone di uno schiavo è in fondo dipendente da esso per il mantenimento del suo ruolo.

Molti miei colleghi, quelli che hanno studiato sui riassuntini dei libri universitari e che hanno assimilato appena qualche nozione freudiana o di sgangherato costruttivismo da un qualche insegnante esaltato, sostengono che la gente abbia una sofferenza psicologica non perché ha una vita inadeguata al suo potenziale e lontana dai suoi bisogni interiori, ma in quanto è turbata dalle sue irragionevoli pulsioni inconsce provenienti dall’infanzia o dal modo inadeguato in cui percepisce la vita che ha costruito (cioè non se la fa andare bene). Paraculi, oltreché ignoranti, questi colleghi, perché sanno bene che in sede terapeutica è facile cercare di condizionare il paziente a credere che la sua sofferenza sia frutto di pippe mentali, anziché incoraggiarlo e sostenerlo nel cambiare concretamente la vita che vive, fatta nel 90% dei casi di scelte sbagliate entro le relazioni di coppia, i rapporti con la famiglia d’origine, l’impiego lavorativo, l’educazione dei figli e la gestione dell’ansia, che i più ottengono mediante abuso di alcool, cannabis, cocaina e psicofarmaci.

Chi conosce la mente umana e soprattutto la vita reale della gente, quando le persone espongono la loro sofferenza individua rapidamente l’origine dei guai e come si colloca verso di essa la fonte del controllo del paziente, cioè come si pone questa persona verso le sciocchezze che ha fatto e che sta perpetuando, oltreché quali deficit cognitivi, emotivi e di socializzazione stanno compromettendo la sua capacità di giudizio sulla vicenda. La difficoltà e quindi la bravura del terapeuta è spiegare quanto ha compreso alla persona di fronte a lui, che non ha la minima intenzione di cambiare le scelte sbagliate fatte, altrimenti ci avrebbe già pensato da sola. Questo comporta un conflitto fra terapeuta e paziente che dovrà essere risolto attraverso una persuasione complessa, ottenuta tramite sollecitazione evolutiva della psiche del paziente, sollecitazione alla quale l’assistito può opporsi, e spesso lo fa. Tale resistenza è ovvia, poiché il cambiamento implica l’interiorizzare il proprio locus of control, ovvero assumersi la responsabilità degli errori di vita fatti, e sobbarcarsi la fatica e la paura di conseguenze nefaste attribuite al cambiamento o al fallimento dello stesso, per tutto il tempo necessario all’ottenimento della trasformazione esistenziale.

Lasciare un partner per poi eventualmente trovarsene un altro, sviluppare competenze adeguate per cambiare lavoro, modificare, spesso radicalmente, i rapporti con i propri figli o la propria famiglia di origine, o smettere di drogarsi, sono cose che non si ottengono senza impegno, costi e sacrifici protratti nel tempo. Non a caso, nonostante l’apparente illogicità, sono gli individui più giovani quelli che rinunciano; la loro prospettiva temporale ridotta li porta a concepire solo risultati ottenuti rapidamente, e la loro personalità immatura li rende molto dipendenti dalle relazioni intorno a loro. I più anziani, invece, temono di perdere abitudini di lungo corso e benefici consolidati che considerano indispensabili, mentre in realtà sono la prigione che li strangola ogni giorno di più.

Se le persone tutte riuscissero a vedere il potenziale di cui sono portatrici e la grandezza esistenziale che otterrebbero se la attivassero al massimo, immediatamente si proietterebbero nel faticoso processo di cambiamento di sé e della propria vita, consapevoli del fatto che i ricordi del loro passato e i loro attaccamenti affettivi sono perlopiù una trappola mentale, e che il loro destino, in una dimensione al di là del tempo, non è la schiavitù di una vita controllata dal terrore, ma la certa realizzazione di amore, prosperità e bellezza, e di questo, parlerò nei prossimi post. Inutile aggiustare cose rotte, creare cose nuove è il senso della vita.

 

Un abbraccio a tutti voi,

 

Andrea