La natura della dipendenza e la vita come compito

Cari ragazzi e ragazze,

Oggi tutto scorre tendenzialmente bene, nella mia estemporanea percezione delle cose: nella realtà tanto orribile quanto inevitabile della guerra, specificamente in quella che determinerà il nostro futuro prossimo, l’Uomo venuto dal freddo tiene in scacco l’impero del terrore angloamericano; i nostalgici della tessera verde sono in declino, ormai ridotti a coppie di sparuti zeloti della “Scienzah” che girano mascherati e quintodosati, fantasmi di cui tutto ciò che rimane è lo sguardo di un’anima in pena che ci ricorda che moriremo tutti e male e loro intanto si portano avanti, ci danno il buon esempio, lo fanno anche per noi eh (intendevo il quintodosarsi, che avete capito?); la parziale riduzione dei provvedimenti nazisti a danno della popolazione conferma il semi-fallimento della propaganda pandemica, per fronteggiare il quale i massoni di Davos si riuniscono recludendosi in regge-prigione per tramare e complottare il nuovo modo “green” di renderci schiavi ed eliminarci a mazzi, mentre i draghi di turno gli portano le bibite e gli appendono il soprabito nel guardaroba, ma intanto ci lasciano qualche mese di respiro; la mia consueta gita domenicale fuoriporta, stavolta con cioccolata calda nella mia amata Piazza della Morte, mi è piaciuta tanto, e al ritorno mi sono anche tagliato i capelli dal solito barbiere cinese, che ogni volta è diverso da quello di due mesi fa, come sempre non parla italiano, io non parlo cinese, gli faccio vedere la foto di Brad Pitt in “Fury”, lui annuisce e mi fa un taglio che sembra quello ma che quello non è, per dieci euri sono soddisfatto lo stesso, e grazie a tutto ciò nasce la soluzione al dilemma della Stanza Cinese di Penrose, perché un’immagine vale più di mille parole; infine, come sempre, mia moglie si prodiga nel raccomandarmi di non scrivere cose pesanti, io la rassicuro con sguardo amorevole e sorridente che non lo farò e poi le scrivo lo stesso, ma non tanto pesanti perché oggi in fondo mi sento di buon umore. Pure sto organizzando per domenica prossima la festa di fine anno di Credendo Vides, dunque cosa mai potrei volere di più?

La mia odierna leggerezza è uno stato mentale raro ed elusivo, motivo per il quale organizzo sempre meno attività per questo gruppo e ancor meno scrivo post, poiché da settembre sono veramente logorato da un carico di lavoro importante, che accolgo con gioia perché amo le persone che aiuto e la trasformazione a cui mi sottopone la relazione terapeutica, sebbene la sera mi lasci capace solo di vedermi un filmetto d’azione con Jason Statham, che mi rilassa e mi diverte perché è identico a mio cognato nell’aspetto e nell’atteggiamento, ma non mi permette di studiare e produrre come vorrei, e al carico di lavoro si aggiunge poi il frutto delle mie riflessioni teologiche, un vizio passatempo che non riesco a togliermi, ovvero la sommatoria delle implicazioni del prodotto degli attributi divini “assoluto x infinito”, che mi atterrisce e mi sconvolge e che quello sicuro proprio non lo scriverò mai da nessuna parte.

È quindi opportuno che sfrutti questo momento positivo per esporre alcune riflessioni sulle quali mi sono soffermato negli ultimi mesi, relative a un fenomeno che ho imparato a conoscere dal primo giorno di lavoro, ma che ogni volta lo incrocio mi sorprende e mi costringe a profonde considerazioni esistenziali e psicologiche: la dipendenza affettiva. Precedo dunque a svolgere il mio pensiero a riguardo.

Il mio lavoro consiste nell’accogliere una richiesta di aiuto che, in estrema sintesi, suona in questo modo: “Andrea, in questo momento la vita mi schiaccia e mi offusca e mi rende sofferente, impedendomi di capire come essere felice e come trovare la forza di fare ciò che sento essere necessario a tale scopo, le rare volte in cui questo mi è chiaro. Aiutami, se puoi”. Non potendo prendere il controllo della vita degli altri e tantomeno fargli il lavaggio del cervello (magari potessi!), così da risolvergli i problemi presto e bene, devo dunque prima rendere le persone consapevoli del loro potenziale e delle numerose possibilità di azione che la vita gli offre, poi indirizzarle verso la scelta che comporta loro il minor costo esistenziale e il maggior beneficio stabile e durevole (io sono un comportamentista direttivo e interventista, non un analista che perde tempo a fantasticare su eventuali perversi desideri sessuali a tema familiare o un costruttivista che discute col paziente se la stanza esiste o no), quindi sostenerle nel processo di attuazione di questa scelta, aiutandole ad affrontare difficoltà impreviste e momenti di scoramento. Tutto questo sarebbe relativamente facile e anche rapido da realizzare se le persone non fossero dominate dalla paura, e per effetto di essa non facessero immani stupidaggini, le cui conseguenze compromettono sempre più la loro situazione problematica.

Le persone hanno sempre paura, da quando nascono a quando muoiono, e capire come gestirla è una sfida esistenziale ineludibile. Hanno paura del dolore fisico e di sviluppare condizioni invalidanti come quelle che associano alla malattia e alla vecchiaia; hanno paura di essere abbandonate ad un destino di solitudine affettiva e relazionale perché spregevoli e non amabili e associano tale esisto esistenziale ad una vita miserabile e vuota; hanno paura di essere esclusi dai gruppi sociali di riferimento in quanto devianti o “perdenti” e quindi ridursi ad una vita da reietti caratterizzata dal timore paranoideo che gli altri li puniranno per la loro inadeguatezza e mancata conformità; hanno paura di essere sessualmente indesiderabili e dunque di non essere all’altezza delle aspettative di ruolo di genere che orientano la loro esistenza dalla culla alla tomba; hanno paura di essere o diventare dei “falliti” inabili a portare alcun contributo al loro gruppo di appartenenza per incapacità di realizzare i loro talenti, le loro ambizioni e vocazioni e dunque suscitare pena, disprezzo e compassione per la loro vita non realizzata. Non importa quanto le persone neghino, sminuiscano o siano inconsapevoli delle suddette paure che regolano la loro esistenza; queste ci sono e tutti dobbiamo farci i conti, ogni tentativo di sviare la nostra attenzione da esse risulta patetico e grottesco.

Coloro che hanno ricevuto amore, guida e sostegno adeguati al loro bisogno all’inizio della loro vita, sviluppando così una buona autostima, si rimboccano le maniche e affrontano la vita come una sfida che li chiama ad un impegno e una crescita continui, mentre tutti gli altri, che sono la larga maggioranza, si sentono soverchiati, e rispondono alla vita evitando tutto ciò che possono, stordendosi e rifugiandosi dietro ad altri quando non possono, infine paralizzandosi nell’immobilismo quando nessun ausilio è disponibile o efficace. Per i pavidi, l’unica via d’uscita da una distruttiva angoscia senza fine è l’incontro con qualcuno che con amore li porti alla conoscenza di sé stessi, li conduca alla consapevolezza delle loro risorse potenziali e del loro valore umano, ripristinando in loro l’amor proprio e l’autostima necessaria a poter sfidare la vita; ma tali incontri, terminata l’età infantile, sono purtroppo rari e improbabili, soprattutto se intesi come imprevisti accadimenti spontanei e non come il frutto di una ricerca deliberata.

Ogni giorno che Dio manda in Terra, più di quelle che fuggono isolandosi dalla vita o paralizzandosi di fronte ad essa, incontro persone che si sostengono nella sfida esistenziale grazie all’abuso di mezzi ordinari, utilizzati in modo deforme e difforme alla loro natura, per compensare, così credono ingenuamente, la loro fragilità percepita. Tali compensazioni, di fatto, non sono altro che intense fonti di stimolazione capaci di indurre stordimento e dunque di attenuare la paura: abbiamo il filone degli stimoli psicoattivi quali cibo, alcool, tabacco, cannabis, cocaina e affini; quello degli stimoli comportamentali quali social network, cure mediche, shopping, sesso, estetica, lavoro, sport e attività fisica, giochi d’azzardo e non, investimenti e finanza, hobby e collezionismo, spiritualità e religioni; last but non least, quello degli stimoli affettivi, quali le relazioni familiari, amicali e soprattutto di coppia.

Ogni fonte di stimolazione gratificante della quale si abusa induce, per effetto dell’organizzazione del nostro sistema nervoso, un’abituazione che ne attenua la potenza stimolante e che richiede, per il mantenimento della gratificazione, l’incremento della frequenza e dell’intensità dello stimolo stesso; la cessazione anche limitata nel tempo di questa iper-stimolazione comporta condizioni di scompenso nervoso e psicologico assai spiacevoli, note come fasi di astinenza, la cui comparsa definisce l’insorgenza di una dipendenza dallo stimolo, indipendentemente dal danno che la somministrazione dello stesso comporta nel tempo; l’evitamento dell’astinenza è infatti prioritario rispetto alla tossicità dello stimolo da cui si è dipendenti. La dipendenza è una “tentata soluzione”, per dirla alla Nardone, volta a lenire l’angoscia esistenziale e si connota come una condizione patologica, poiché il suo protrarsi nel tempo, per effetto della volontà della persona, comporterà la degenerazione nervosa e psichica del soggetto stesso.

Di tutte le innumerevoli dipendenze possibili, concentrerò la mia attenzione su quella tipologia implicante relazioni morbose con altri individui e nota come dipendenza affettiva, dato che è di gran lunga la forma più diffusa e più dannosa. Esaminando le origini del problema, dobbiamo riconoscere che l’Uomo, seppure frutto di ingegneria genetica aliena, è un animale sociale, l’unico sulla Terra a prole inetta, che necessita a lungo della protezione e della guida dei suoi simili adulti anche solo per rendersi fisicamente capace di auto-sussistenza; ne consegue che la mente umana, in tutte le sue strutture e funzioni, è di natura relazionale e necessita per il suo sviluppo di rapporti con i propri simili, e la prova regina di questo è l’esistenza del linguaggio, che ci rende capaci di scambiarci informazioni al di fuori del dominio del materia, come quelle relative a stati interiori o eventi lontani nel passato o nel futuro. Per avere una vita psicologicamente sana, dunque, noi dobbiamo avere relazioni, così come dobbiamo mangiare, muoversi, vestirci, istruirci, lavorare, svagarci e via dicendo. Quand’è, allora, che una relazione diviene patologica? Quando, anziché promuovere lo sviluppo psicologico di una persona, lo rende stagnante o peggio ne comporta l’involuzione.

Lo sviluppo sano dell’individuo è cosa semplice da individuare per chiunque: se, con il trascorrere del tempo, la persona aumenta il numero, la varietà e la qualità (intesa come intensità e complessità) dei suoi scambi sociali, dei suoi interessi intellettuali e delle sue attività edoniche, delle sue azioni produttive (come lo studio e il lavoro), delle sue realizzazioni concrete (dal comprarsi un’auto a fare figli), della sua conoscenza esplicita e narrativa di sé, nonché delle sue espressioni affettive, e tutto questo comporta di riflesso uno stato di benessere, serenità e felicità, essa sta evolvendo. Viceversa, se il suo mondo interiore ed esteriore si impoverisce sempre più ed essa diviene sempre più infelice o affettivamente distaccata, spesso fino ai picchi della disperazione o dell’abulia, allora sta palesemente involvendo o degradandosi. Qualsiasi relazione, per un individuo, si definisce quindi “sana” o “patologica” in base alla direzione esistenziale in cui conduce o sospinge questa persona.

Fatti salvi quei casi in cui la persona che cerca di sottrarsi ad una relazione rischi effettivamente la vita, e tali situazioni nel nostro Paese sono in pratica inesistenti quando gli strumenti legislativi e di protezione sociale vengono utilizzati a fondo nei primi momenti di un rapporto pericoloso (con buona pace di credenze ingenue piuttosto diffuse), ogni relazione patologica viene mantenuta per volontà e collaborazione attiva della persona che si definisce, o viene identificata dagli altri, come “vittima” di un altro individuo maltrattante all’interno di un rapporto malsano. La dipendenza, infatti, è tale perché chi viene ferito non ha alcuna reale intenzione di interrompere la relazione, in quanto l’astinenza, ovvero lo stato di solitudine che l’interruzione comporta, è consapevolmente percepita o istintivamente sentita come una rovina assai peggiore di mortificazioni, danni o privazioni, siano essi fisici, psichici o sociali, che il mantenimento della relazione può comportare.

Mentre le relazioni sane sono connotate da benessere, serenità e felicità, quelle patologiche comportano un continuo alternarsi di rabbia, paura e tristezza, vissuti che alimentano atteggiamenti ben lontani dalla cura e dalla promozione dell’altro e di sé stessi, ma che anzi implicano frequentemente trascuratezza e maltrattamenti, e meno comunemente abusi, violenze e torture di varia natura che possono portare fino a estremi suicidari e omicidiari. Ne consegue che nessuna persona che abbia sviluppato una personalità sana può iniziare, alimentare e mantenere nel tempo relazioni patologiche di dipendenza; la presenza delle stesse è anzi la prova che la personalità degli individui coinvolti nel rapporto malsano è disturbata, almeno in minimo grado, quello che noi tecnici chiamiamo sub-clinico, insufficiente per una diagnosi conclamata poiché non sono manifesti particolari sintomi o elevata compromissione sociale.

Non importa quanto una persona si definisca sana o brava o appaia tale agli occhi degli altri quando è coinvolta in una relazione di dipendenza affettiva; essa ha una personalità squilibrata, tanto o poco non importa, che dovrebbe essere aggiustata. Tale riparazione è un dovere morale che le persone coinvolte nelle relazioni patologiche hanno verso sé stesse, poiché le porterebbe ad affacciarsi alla vita con gioia e amore vero per sé e per gli altri, ma è anche una necessità oggettiva che dovrebbe essere promossa da tutti, poiché ogni rapporto patologico, sia esso familiare, di coppia o di altro tipo, comporta costi sociali, quali ad esempio interventi delle forze dell’ordine, di assistenti sociali, intervento di tribunali, servizi sanitari, e danneggia ingiustamente le persone, soprattutto se conviventi, che malauguratamente hanno scambi o vivono nello stesso ambiente dei membri della relazione disturbata, in particolare i loro figli, che vabbè dovranno scontare un debito karmico, ma magari anche meno!

Molto spesso le persone dentro una dipendenza affettiva parlano di amore; dicono che “amano troppo”, che il loro è un “amore speciale”, una “passione travolgente”, una “volontà celeste” e sciocchezze simili. Letteralmente non sanno di cosa parlano, dato che l’amore vero è un sentimento estremamente piacevole, basato sull’emozione della felicità, connotato da intensa gratificazione fisica (come quella prodotta da un abbraccio fra genitore e figlio o dall’amplesso in una coppia), attiva condivisione intima, rispettosa e accogliente dei reciproci stati interiori (quali bisogni, aspettative, vissuti emotivi, pensieri e ragionamenti e affini) e impegno esplicito, volitivo e responsabile, capace di adattamento e modulazione, al fine di garantire il benessere e la felicità reciproci dei membri della relazione, i quali si pensano intrecciati in una congiunta azione futura e collaborante, nota come “destino comune”, e che si individuano come un “noi”, piuttosto che come un “io”. Tale stato mentale implica la percezione di sé come amabili e dotati di valore, è intrinsecamente sfidante e proietta verso l’altro e verso il futuro; dunque è antitetico alla paura, che per sua natura amplifica la percezione dell’“io” e implica l’isolamento, l’aggressione difensiva, la sottomissione supplichevole all’altro e l’inerzia depressiva, oltreché la focalizzazione sul presente e sul passato.

Insomma, chi vive nella paura non è in grado di amare, e chi ama tiene invece a bada le sue paure, tanto da non esserne condizionato. Tutte le personalità disturbate, che in fondo sono solo immature, sono caratterizzate da una specifica paura esistenziale che le rende incapaci di amare: i paranoici hanno bisogno di qualcuno che possano controllare totalmente e pervasivamente, che obbedisca loro senza alcuna ambiguità e opposizione, che sia in ogni istante reperibile e conoscibile, di modo da poter attenuare il loro costante timore di venire danneggiati dal tradimento e dall’abbandono dell’altro; i violenti antisociali hanno bisogno di vittime da predare, umiliare e schiacciare per affermare un senso di forza e supremazia che se perdessero li esporrebbe all’angoscia di sopraffazione da parte dell’altro; i narcisisti hanno bisogno di adulatori ammirati, compagni sottomessi e obbedienti, allievi ed emulatori imperfetti che riconoscano e attestino esplicitamente la loro grandezza e la loro natura “speciale”, uno status sociale e personale che, se venisse perduto, farebbe precipitare in un senso di nullità e fallimento insopportabile, foriero di vendicativa ira funesta e disperazione inconsolabile; gli istrionici hanno bisogno di continuo riconoscimento e attenzione, di suscitare sorpresa e compiacimento, stati diffusi e indifferenziati, non importa da chi provengono, in mancanza dei quali subentra l’insopportabile angoscia di non esistere; i borderline hanno bisogno di qualcuno che, attraverso una dedizione totale e incondizionata a loro, continuamente messa alla prova dai loro maltrattamenti e abbandoni, nonché dai loro stati di squilibrio, dimostri loro che in fondo sono amabili e non sono “cattivi” come temono di essere, lenendo così il continuo stato mentale di paura, rabbia e disperazione che li affligge costantemente, rimandandogli al contempo una identità strutturata che loro non sono in grado di attribuirsi; gli ossessivi hanno bisogno di persone sottomesse che obbediscano ai loro ordini e osservino il loro sterminato sistema di regole e di rituali, così da trasmettergli, attraverso l’andamento stesso della relazione, un senso di prevedibilità e controllabilità che plachi la loro ansia esistenziale e li rassicuri sul fatto che la caoticità della vita non li distruggerà; i dipendenti hanno bisogno di qualcuno che appaia stabile, determinato e ambizioso, al quale possano attribuire una solidità maggiore della loro e a cui delegare ogni responsabilità e scelta di vita, di modo da non esporsi, rischiando che l’espressione di una volontà personale e di una mente autonoma conduca a un conflitto potenzialmente foriero di una rottura relazionale, la quale a sua volta genererebbe una solitudine che li esporrebbe al loro inammissibile e intrinseco senso di debolezza, inettitudine e incompletezza.

Molte sono le combinazioni relazionali patologiche possibili di questo casino psicologico; dall’accoppiata più classica fra personalità narcisistiche e dipendenti, al triangolo che aggiunge ad una coppia genitoriale così costituita un figlio borderline; dal devastante binomio paranoide-borderline al più tranquillo terzetto costituito da una coppia ossessivo-dipendente e figlio paranoide. Insomma, chi più ne ha, più ne metta, ma tutte le persone coinvolte in questi giochi relazionali, siano essi perversi o passivo-aggressivi, sottili o drammatici, hanno tutte gli stessi esiti: sono infelici e non combinano nulla di buono della loro vita. Tali “giochi psicotici”, per dirla alla Selvini Palazzoli, che connotano la vita delle persone invischiate nelle dipendenze affettive, sono cicli interpersonali, ovvero scambi relazionali ripetitivi, caratterizzati da un’escalation negativa che, presto o tardi, raggiunge un climax di insopportabile disagio affettivo che porta alla temporanea rottura della relazione. Durante questa pausa, che ai membri della relazione patologica può anche sinceramente apparire come una rottura definitiva, uno o entrambi gli individui cercano sfogo, consiglio e supporto presso un aiutante, spesso una persona amica o un estraneo dal ruolo adatto (come un povero psicologo), a cui si rivolgono per avere il riconoscimento dei torti subiti dall’ex-partner e dal quale ricevere indicazioni su come riorganizzare in meglio la loro vita. Ovviamente è tutta una farsa, sebbene spesso inconsapevole.

Ottenere da una figura esterna alla coppia patologica, meglio se autorevole per qualche motivo, il riconoscimento di sé come “vittima” e dell’altra persona come “colpevole/carnefice/cattiva/pazza” e simili, ha il solo e unico scopo di sbattere in faccia al partner questa nuova etichetta quando i due si ricongiungeranno, così da riequilibrare, si fa per dire, i rapporti di potere fra loro. L’altra richiesta a ingenui aiutanti, ovvero quella di ricevere consigli su come cambiare vita, ha da un lato la funzione per la “povera vittima” di lavarsi la coscienza, di poter dire a sé stessa almeno di averci provato, pur con la piena consapevolezza che nessun consiglio ricevuto sarà mai seguito (e a seguire spiego perché), dall’altro, in seguito al ricongiungimento col partner patologico, ha la funzione di poter testimoniare la propria fedeltà al rapporto dipendente chiedendo in cambio riconoscenza e maggiore stabilità. In sostanza è come se la persona dicesse: “Vedi? Nonostante queste persone sagge e autorevoli mi abbiano detto che tu sei un individuo negativo e mi rovini la vita, e che io avrei dovuto fare questo e quest’altro per allontanarmi da te, io non li ho ascoltati perché loro ci volevano dividere mentre io credo in te e nella tua possibilità di riscattarti, anche se la tua natura è corrotta, e ora tu devi essermi riconoscente e trattarmi meglio!”.

Insomma, l’atto stesso di fornire consigli alle persone coinvolte in una relazione patologica, rispondendo al loro stesso appello, espone gli aiutanti ad una risposta punitiva certa, seppure di varia natura e intensità, proprio da parte di coloro che hanno cercato di aiutare. Gli aiutanti, ignari o increduli della dinamica sopra esposta, faticheranno a capire il perché vengono aggrediti da chi hanno cercato di aiutare, e reagiranno in un modo che è atteso e desiderato dai partecipanti della relazione di dipendenza: farsi lasciare in pace, isolati e lontani dalle critiche di un mondo che è incapace di capirli e che percepiscono depositario solo di oscure minacce al loro stile di vita. E in fondo, se esistono detti come “fra moglie e marito non mettere il dito” o “i panni sporchi si lavano in famiglia” un motivo ci sarà, no?

Ma perché i membri di una relazione di dipendenza patologica dovrebbero tornare insieme dopo essersi lasciati? Per lo stesso motivo per cui si sono messi insieme, ovvero perché non hanno la più pallida idea di come vivere una vita sana, cosa che li spaventa e di fatto li costringe ad un impegno e ad una responsabilità verso sé stessi e gli altri che non pensano di essere in grado di assumersi né vogliono correre il rischio di farlo, esponendosi a potenziali sofferenze e fallimenti. Poco sopra ho scritto che le persone invischiate in rapporti di dipendenza non seguiranno mai un consiglio che viene dato loro, soprattutto se questo li condurrebbe verso un’autonomia costruttiva; esse infatti sanno benissimo cosa dovrebbero fare per il loro bene, lo hanno sempre saputo, non hanno certo bisogno che qualcuno glielo dica; sono matti, mica scemi! L’esempio di altre persone più equilibrate, insieme a innumerevoli consigli ricevuti da persone vicine e lontane nel corso della vita, più incalcolabili video, libri e testi, tratti perlopiù dai social e da pagine internet, hanno informato queste persone a fondo su come si vive una vita sana, ma loro hanno paura di farlo, perché non si fidano di sé stesse e non credono che potrebbero riuscirvi mai.

Tutto quanto sopra implica che l’unico intervento utile a chi costruisce e mantiene rapporti di dipendenza affettiva consista nel rivolgergli domande come: “Chi sei tu?”, “Quanto vali tu?”, “Perché, fra mille tuoi simili, dovrei scegliere te?”, “Cosa sei in grado di fare? Puoi dimostrarlo?”, le quali portano le persone a ragionare sulla propria conoscenza di sé, su quelle che sono le loro risorse e potenzialità, a esplorare la propria parte sana, nel mondo reale e senza chiacchiere. Tale intervento ideale comprende anche il mettere in discussione ogni credenza negativa l’individuo abbia su sé stesso (“Se sono così è colpa di mia madre”, “Da bambino mi hanno abusato”, “Vengo da una famiglia povera”, “Sono una high-sensitive person”, “Se mi ribello il mio partner mi mena”, e via elencando scuse, spiegazioni, dimostrazioni e giustificazioni), nonché lo sfidarlo a mettersi alla prova per dimostrare, nel mondo reale, senza sostegni e ausili utili solo a rinforzare la percezione di essere mancanti o danneggiati, cosa è in grado di fare. Chi crede di non poter affrontare un mondo così difficile e una vita che pensa in fondo faccia schifo, e che dunque sente di dover delegare agli altri quanto è suo o di doversi annullare per non sentire l’angoscia, creando rapporti di dipendenza come risposta al problema del vivere, deve invece rimboccarsi le maniche e muovere il culo, perché è vero che il mondo è difficile, ma non è la vita che fa schifo, è il modo in cui la vivono loro ad essere squallido, orrendo o deprimente.

Nella mia esperienza di vita e di lavoro ho conosciuto approfonditamente centinaia di persone di ogni genere, dai santi ai delinquenti, da individui fortemente svantaggiati a veri superdotati e privilegiati. La condizione reale di costoro era irrilevante: se credevano in sé stesse e nel loro valore vivevano bene, altrimenti no, stavano nella dipendenza dalla testa ai piedi, e il loro recupero, quando ho avuto il piacere di averli come pazienti, era dovuto unicamente alla costruzione di una visione di amore e di accettazione sé stessi, a priori rispetto a eventuali realizzazioni e successi. Ovvero, chi ce la fa ad uscire dalla dipendenza affettiva è perché accetta di valere prima di aver combinato qualcosa di buono, in quanto il contenuto mentale precede e guida l’azione, mentre le azioni e le loro conseguenze non hanno alcun potere di scalfire le convinzioni che la gente ha su di sé, dato che queste sono state costruite all’interno di dinamiche familiari affettive ormai completamente esaurite già in età preadolescenziale.

Affinché le persone diventino libere dalla paura e capaci di amare e di evolversi, devono sviluppare una visione positiva di sé, degli altri e del futuro, e possono costruire tali idee solamente dentro a relazioni sane e amorevoli che le spingano a interrogarsi continuamente su sé stesse, sul loro valore e sul loro potenziale, invitandole a dimostrare attraverso l’azione e la comunicazione esplicita ogni nuova scoperta e affermazione generino relativa al proprio sé. Solo a questo punto potranno “salvarsi” in quanto, grazie allo stimolo e al modellamento ricevuto, saranno in grado di sviluppare nuovi modi di affrontare la vita, liberandosi da ogni dipendenza.

Per concludere, ho visto che questo processo raggiunge la sua massima pienezza di rinascita, sviluppo e liberazione quando le persone sviluppano una forma risanata di un tema classico della dipendenza affettiva: il compito autoimposto di dover “salvare l’altro”, che naturalmente è la parte maltrattante della coppia. Molte persone con disturbo della personalità e conseguenti rapporti di dipendenza giustificano infatti il mantenimento della relazione patologica come un atto nobile e altruistico, ovvero il proteggere il partner dalle nefaste conseguenze del suo modo scellerato di vivere; loro, insomma, sarebbero “angeli custodi”, “sagge guide”, “madri amorevoli”, “severi maestri”, “compassionevoli infermieri”, “compagne comprensive” e simili, di soggetti che si distruggerebbero la vita se non ci fossero loro. Ovviamente è una gigantesca fregnaccia, il cui unico intento è nobilitare la fuga della persona dipendente dalla responsabilità verso la propria vita, quella sì avviata verso la distruzione.

Ma il principio non è sbagliato, se lo riportiamo alla sua dimensione sana. Quando una persona rimette in sesto la propria personalità e si libera da ogni dipendenza patologica, allora davvero può diventare un modello di virtù per gli altri disperati; davvero la sua vita può assumersi il compito di fare del bene agli altri, non più perché gli si regala un pesce al giorno, ma perché gli si insegna a pescare; non più perché si subisce la loro negatività, ma perché li si porta in piazza raccontando a tutti il male che fanno nel segreto, ci si ribella ad ogni loro oppressione distinguendo esplicitamente il bene dal male e li si conduce nei luoghi e dalle persone che possono insegnare loro a vivere in modo sano e costruttivo; non più si limita la propria esistenza ad uno specifico individuo, ma tutti divengono i propri familiari, amici e amati, e ci si apre a nuovi rapporti e alla ricchezza del vivere!

Questo è allora il compito che spetta a tutti noi: evolverci e far evolvere gli altri intorno a noi, perché solo se tutti ci libereremo dalla paura e impareremo ad amare, allora il male non avrà più dominio sulla Terra.