Visioni dal passato

Cari ragazzi e ragazze,

Ormai le vacanze sono per me terminate, è ora di tornare a lavoro e dunque di riprendere a scrivere qualche post con la consueta cadenzata lentezza, utile a stimolare le menti, soprattutto la mia; qui niente foto di cene e colazioni che pare che non hai mai mangiato prima nella vita, niente culi strabordanti da microcostumi sul bagnasciuga, niente animali simpatici che fanno cose, nemmeno foto di gente finta sfatta che sta fintamente in “after” a beneficio del fotografo che pedina ormai il novanta per cento degli italiani, pure in bagno, e dei gonzi che si profondono in like su queste facezie nazionalpopolari. Insomma devi avere la fortuna di essere un disadattato notevole per apprezzare i contenuti esposti a seguire; spero lo sarai, per il tuo bene e per quello del futuro del nostro disgraziato Paese.

Ormai parecchio tempo fa si è tenuta una gita segreta nella quale sono stati invitati a partecipare gli arditi che hanno preso parte al nostro ultimo seminario e quelli che da loro sono stati invitati, oltre a qualche raccomandato di ferro, inaugurando il format delle psicogite da qui in avanti. Il tutto è iniziato nel ridente villaggio di Norma, dove al calar del sole ci siamo incontrati in una trentina per fare lauto aperitivo, mentre Canadair ed elicotteri della Protezione Civile domavano le fiamme che lambivano i confini del posto dove noi, ma guarda un po’, ci saremmo recati di lì a breve. Ottenuto il benestare a raggiungere la meta dal lì presente sindaco, con la compagnia dell’assessore al turismo e del carabiniere di turno, abbiamo quindi raggiunto le rovine dell’antica Norba, alle pendici dei Monti Lepini, dove abbiamo iniziato le nostre attività psicoeducative.

La storia è oltremodo tragica, e ha le sue origini nel lontano passato. La scrivo in corsivo qui di seguito, così gli appassionati dei selfie col tramonto di sfondo possono saltarla in blocco.

Nel 509 a.C. i plebei di Roma abbandonarono in massa la città eterna per protesta contro il potere aristocratico, ritirandosi sul Monte Sacro, e accettarono di rientrare solo quando i patrizi nel Senato diedero il loro consenso alla creazione di una carica pubblica che divenisse rappresentante delle classi popolari e borghesi: i Tribuni della plebe, magistrati dotati di potere legislativo, di auctoritas morale e di inviolabile sanctitas. Qualche anno dopo, la nostra Norba, una città il cui nome voleva dire forse “città forte”, tra il 501 e il 496 a.C. partecipò con la Lega Latina alla guerra contro Roma nella battaglia del lago Regillo in sostegno di Tarquinio il Superbo che, dopo essere stato cacciato da Roma per gli abusi di lui e della sua famiglia ai danni dei romani, aveva cercato aiuto in varie città vicine. Il conflitto fu una disfatta per le città latine confederate e nel 492 a.C. Norba diventò una roccaforte romana, un avamposto pressoché inespugnabile per la sua posizione geografica e le maestose mura difensive.

Da secoli, letteralmente, la Repubblica romana era percorsa da un conflitto tra due fazioni: quella dei Populares e quella degli Ottimati, che si combattevano, con alterne fortune, per il predominio politico sull'Urbe. Gli Ottimati (cioè i migliori) erano i componenti dell’aristocrazia conservatrice che aveva tempo e denaro per dedicarsi alla politica ed esercitare il potere sfornando membri del Senato; una confederazione di nobili, ciascuno con una diffusa rete di clientele e di alleanze che gestiva in modo autonomo, tutti alleati nel conservare i privilegi nobiliari e ad opporsi all'ascesa in politica degli “uomini nuovi” (plebei, di solito provinciali, senza curriculum istituzionale) e all'estensione della cittadinanza romana, e quindi dei diritti, agli stranieri e alla maggior parte degli Italici. I Populares sostenevano invece le istanze del popolo, costituendo la base dell'autorità dei Tribuni della plebe, e acquisirono grande importanza tra la fine del II e l'inizio del I secolo a.C., quando le enormi conquiste di Roma nel Mediterraneo portarono conseguenze economico-sociali disgreganti il vecchio ordine sociale.

Gaio Mario era un homo novus, e seppe giungere alla ribalta della vita pubblica di Roma per merito della propria competenza militare, costringendo l'oligarchia dominante a cooptarlo nel proprio sistema di potere, divenendo console sei volte in otto anni, dal 108 al 100 a.C.. Lucio Cornelio Silla, invece, veniva da un ramo della gens patrizia dei Cornelii caduto in disgrazia ed ebbe un'ottima educazione, degna delle sue origini, ma per ottenere una carica politica gli serviva denaro, che arrivò con il successo della spedizione militare contro Giugurta, re della Numidia, condotta da Mario, suo cognato, che lo aveva reso questore e comandante della missione. La fama che derivò a Silla fu il trampolino di lancio per la sua carriera politica, che nel 96 a.C. si unì agli Optimates, provocando il risentimento e la gelosia di Mario nei suoi confronti.

Negli anni 91-88 a.C. Mario e Silla sedarono militarmente una pericolosa rivolta degli alleati di Roma, che si risolse con la concessione a loro di ampi diritti, e appena terminata la lotta contro gli esterni, la guerra civile scoppiò a Roma. Silla scacciò i mariani dall'Urbe e ottenne dal Senato il comando per la guerra a Mitridate, ma mentre era impegnato al fronte, i Populares con Mario ripresero la città; nell’86 a.C. Silla veniva dichiarato nemico pubblico, le sue abitazioni cittadine e di campagna furono distrutte e i suoi amici messi a morte. Nello stesso anno, Mario, ormai settantenne, muore. Per riprendere il potere Silla decise di tornare in Italia, e conclusa nell’84 a.C. la pace in Asia, sbarcò con il suo esercito a Brindisi nell’anno successivo. Silla disponeva delle cinque legioni di veterani con le quali aveva condotto la vittoriosa campagna contro Mitridate, ma le forze militari democratiche erano molto numerose, sebbene inesperte. I nuovi consoli, Lucio Cornelio Scipione Asiatico e Gaio Norbano (che ovviamente proveniva da Norba), pur essendo famosi tra i Populares, erano mediocri capi militari e subirono importanti sconfitte, incapaci di contrastare le tattiche anticipatorie di Silla e le sue capacità diplomatiche, volte a convertire i vecchi nemici alla propria causa. Lo scontro decisivo tra gli eserciti, la battaglia di Porta Collina, si svolse il 1º novembre dell'82 a.C. sotto le mura di Roma, e solo per il gioco del Destino si risolse a favore degli Ottimati. Sconfitti i nemici mariani, Silla assunse il titolo di dittatore a vita e ristabilì il regime oligarchico con una serie di riforme che ridussero enormemente il potere del popolo, soggiogandolo a un Senato addirittura raddoppiato.

La guerra provocò devastazioni in larga parte del territorio italico, con intere città gravemente danneggiate, ma gli abitanti di Norba, assediati dalle truppe sillane, ancora resistevano, e avrebbero venduto cara la pelle. Norba era la città che aveva dato i natali a Gaio Norbano e godeva di una posizione difensiva pressoché inespugnabile (analoga a Masada, presa dagli Zeloti nel 66 d.C. e conquistata dai Romani nel 74 d.C.). Un’ondata dopo l’altra gli assalitori si infrangevano contro le sue poderose mura, guidati dall’infido Marco Emilio Lepido, un opportunista che era riuscito a riabilitare il suo antico casato sposando prima la causa dei Populares malgrado le sue origini nobili, per poi passare per convenienza agli Optimates. Per provarne la fedeltà, Silla gli aveva affidato l’impresa di conquistare la roccaforte dei partigiani di Mario, ma senza successo. Il tempo stringeva e se Lepido voleva compiacere il suo signore doveva trovare una soluzione per fiaccare la resistenza dei cittadini di Norba. Avendo fatto dell’ambiguità una pratica politica, riuscì in qualche modo a contattare e corrompere uno dei difensori, e ciò che non si era ottenuto con le armi lo si ottenne con il tradimento.

Era ancora buio quando improvvisamente una delle solide porte che proteggevano la città venne aperta dall’interno. Forti folate di un freddo vento proveniente dal mare spensero i fuochi sacri presso il tempio di Diana sull’acropoli cittadina e fu un grido smorzato nell’oscurità a far scattare l’allarme. Il nemico alle porte era ormai penetrato all’interno della cerchia muraria; tutto era perduto. Qualcuno tentò di resistere, ma i più si resero presto conto che non avrebbero avuto scampo; scelsero allora di morire con onore, piuttosto che essere massacrati dal nemico, e dunque il fratello uccise il fratello, il marito uccise la moglie ed il padre i propri figli, e tutti coloro che non ebbero il coraggio di infliggere un colpo mortale ai propri cari preferirono dare fuoco casa, trasformando le mura domestiche in una pira funeraria. Prima che i soldati di Silla potessero dare inizio al massacro, Norba bruciava per mano dei suoi stessi cittadini, non lasciando nulla agli invasori. Non fu mai più riedificata, né abitata, e i suoi resti sono rimasti a imperitura memoria del tragico eroismo dei suoi abitanti.

Dunque Norba è un luogo di dolore e di eroismo, carico di energie umane e naturali, consumato dall’incendio appiccato dai suoi stessi abitanti, edificato su antiche e ciclopiche mura poligonali costruite da una più antica e sconosciuta civiltà marittima e dimora, oltre che dei templi in onore di Diana e di Giunone, di un misterioso sacrario dedicato al caduceo, il serpentino bastone della sapienza appartenente a Mercurio (non quello di Asclepio!) e mutuato da un remoto culto sumero dell’aldilà.

Insomma, il luogo perfetto per un’esperienza psicodrammatica volta a rivivere gli ultimi momenti della città: un lauto pasto comunitario e poi la tragedia della scelta finale, in cui i partecipanti, raggruppati nelle principali famiglie di Norba, hanno dovuto decidere le loro ultime mosse in attesa dell’invasione fatale. Per entrare meglio nell’atmosfera, il tutto è stato anticipato da una meditazione silenziosa condotta al tramonto. L’attività e lo stare insieme sono stati ovviamente entusiasmanti e divertenti, una bellissima serata entrata a far parte della galleria di ricordi che questo incredibile gruppo, con la sua voglia di fare e la fiducia che mi concede nelle mie iniziative, mi dà la possibilità di accumulare. Ciò che volevo trasmettere in modo subconscio ai partecipanti, attraverso la loro identificazione con gli antichi norbensi, oltre a tutto quanto sopra, è la coscienza di quanto fragili siano le situazioni quotidiane e come a volte le persone siano chiamate a scelte estreme capaci, in un attimo, di dare o di togliere dignità e nobiltà ad una vita intera.

La nostra esistenza ordinaria, invero, non è fatta solamente di lavoro e divertimenti demenziali, né di trivia spacciati per cultura alla Focus o alla pieroangelachedioloperdoni, o di una spiritualità costituita di avemarie snocciolate, tamburi sciamanici sbatacchiati e oracolari oroscopi della domenica. La nostra vita può essere quella dello schiavo, nato per obbedire, per servire, non pensare e trapassare a comando, senza coscienza né autonomia interiore, oppure può essere quella della persona affrancata, costruita intorno a valori che ci rendono allo stesso tempo liberi e responsabili, capaci di decidere consapevolmente come vogliamo vivere e morire, capaci di lottare per il mondo in cui vogliamo esistere, senza elemosinare biscottini come un cane al padrone.

I dormienti credono ad emergenze di ogni sorta e in generale a qualsiasi cosa gli racconti il televisore, figuriamoci quello che hanno imparato a scuola; sono stati addestrati fin dall’asilo a non pensare e mai si sono posti una domanda sulla loro origine e la loro natura, e quindi credono alla realtà di quell’allucinazione collettiva che è il denaro come pure che discendiamo dalla scimmia. Cosa, quest’ultima, che sarebbe vera nella misura in cui il primate in questione ci avesse prima portato sulle spalle, e non so voi quanta gente avete cosciuto che è discesa da siffatta cavalcatura. Se le persone capissero cosa implicano la pseudotraslocazione robertsoniana o l’esplosione epigenetica che avrebbero caratterizzato il passaggio dallo scimpanzé all’uomo, la presenza del fattore Rh e dei difetti genetici dei non africani, o ancora l’Eva mitocondriale, un’idea la cui robustezza scientifica è pari a quella della verginità della Madonna, si risolverebbero a lasciare perdere la “Scienzah” dei pieroangelachedioloperdoni e si rivolgerebbero all’unica fonte affidabile di informazioni sul nostro passato di specie: la mitologia.

A riguardo, Wikipedia ci informa che nei miti circolanti cinquemila anni fa entro la civiltà sumera, gli dei locali, noti come Annunaki, per svolgere le loro faccende terrene avevano creato in successione non meno di sei stirpi di esseri divini e semidivini, fra cui una razza lavoratrice nota come Igigi, la quale però, a sua volta, lamentava esigenze stringenti:

"Gli Igigi trovano difficoltà a procurarsi il cibo, quindi decidono di lamentarsi presso Enki, dio dell'acqua ma anche dio della saggezza. Ma egli giace profondamente addormentato sul mare e non sente le loro lamentele. Allora Nammu, madre di Enki, si fa portavoce e gli comunica il loro problema. Gli dice di creare dei "servi" che possano svolgere i lavori che gli Igigi non sono in grado di fare. Enki riflette, e consiglia quindi alla madre di creare delle forme con l'argilla dell'Abisso, e di imprimere su di esse l'immagine degli Igigi: queste forme saranno chiamate "uomini". Per festeggiare questa decisione, gli Igigi organizzano un banchetto, durante il quale Enki e Ninmah, dea del parto, si ubriacano e perdono lucidità. Ninmah prende quindi un po' di argilla dell'Abisso e con essa forgia sei individui anormali, sfidando il dio a trovar loro una qualche utilità. Enki accetta e riesce a finire l'opera decretando il loro destino, e dando loro da mangiare del pane. Sulle imperfezioni dei primi quattro non si hanno notizie, mentre gli ultimi due sono una femmina incapace di procreare ed un essere asessuato. Il destino della prima è quello di dimorare nel gineceo, quello del secondo di "camminare davanti al re". Enki comunque non vuole essere da meno della dea Ninmah, e a sua volta forgia una creatura. L'essere da lui creato è in qualche modo inanimato, debole di corpo e di spirito. Gli si offre del pane, ma lui non tende la mano per riceverlo, gli si parla ma lui non risponde; non riesce a stare in piedi, né seduto, né riesce a piegare le ginocchia. Enki chiede quindi a Ninmah di dare in qualche modo un aiuto a questa creatura, ma nemmeno la dea è in grado di fare qualcosa. Ne segue una lunga discussione tra i due dei, molto lacunosa e quindi difficilmente comprensibile, ma pare che Ninmah maledica Enki per la sua incoscienza nel creare un essere così miserevole, e sembra che il dio finisca col pensare che la maledizione sia meritata."

Insomma, dopo qualche tentativo non proprio andato a buon fine di ingegneria genetica, usciamo fuori noi, una razza nata per servire esseri a loro volta creati per servire: gli schiavi degli schiavi. Sempre secondo il mito, man mano che la Storia segue il suo corso, nelle varie leggende mediorientali gli dei lasciano il controllo degli uomini a stirpi di re che hanno dapprima un’origine ibrida, ovvero nascono dall’incrocio fra dei e umani, poi sono semplicemente i prescelti terreni dalla gerarchia celeste per gestire i loro affari sulla Terra e governare in loro nome. Sono passati migliaia di anni, ma noi ancora stiamo così: letteralmente, ad adorare i Draghi e gli Avengers e i loro servitori ed emissari come fossero nostri dei, ansiosi di ricevere la loro benedizione, benevolenza e protezione.

Vero è che sul piano pratico, fino alla prossima Rivoluzione francese o alla futura Notte dell’uomo bruciato delle visioni di Rasputin, ci tocca sopportarne il giogo e occasionalmente pure la frusta, ma se le cose cambieranno o no dipenderà da noi e dalla coscienza individuale che abbiamo sviluppato; provate ad elevarvi dalla consapevolezza collettiva propria degli insetti (che, guarda un po’, ci vogliono iniziare a far mangiare) e degli alieni vegetali dell’Invasione degli Ultracorpi, e provate a dire “Io”, quella parola che gli abbracciatori di alberi, i massoni, i maestri e i virologi temono più di ogni altra cosa, che tutti ti dicono di non pensarla nemmeno perché cosavuoichesiamonoinellastoriadelluniverso e ladisidentificazioneèlunicaviaperilnirvana, sei pazzo, mica vorrai diventare fascista, egoista, magari narcisista maligno!

E io invece ti dico di fare proprio il contrario: io sono, io voglio, io provo, io penso, io so, io sento e mi sento, io ho bisogno, io desidero, io scelgo, io decido, io preferisco, io ero e io sarò, io sono vivo e io morirò e dopo credo che. Inizia così le tue frasi e completale tutte, cento volte al giorno. La tua mente si aprirà ad una dimensione che oggi nemmeno puoi immaginare e che ti renderà indipendente; poi deciderai dove andare, se seguire il copione o scriverlo tu e se, come gli antichi norbensi, vivere e morire in schiavitù, nella paura, o come una persona libera, nel coraggio.

Credendo, vides!

Andrea