Eremitaggio senza tempo: sperimentare il Tao

Cari ragazzi e ragazze,

Trascorsa la canonica decina di giorni dalla nostra ultima psicogita, è arrivato il momento di svelare i ragionamenti e le idee che si annidavano dietro di essa e ne hanno delineato luoghi, tempi e modi.

Anche una scimmia ottusa può organizzare un trekking su sentieri di bassa difficoltà, e passeggiare senza meta e senza scopo comporta un’esperienza davvero miserevole rispetto al potenziale implicito del camminare nella natura. Pure le gite storico-culturali mi hanno sempre lasciato indifferente, a meno che la guida non sia un genio della narrazione recitata; mi sanno di cose per vecchi, ascrivibili a quei documentari di Superquark che ti fanno desiderare di guardare un telegiornale, noto prodotto di fantasia surrealista, piuttosto che ascoltare un’altra balla mainstream sui romani o sugli etruschi.

Per me la psicogita è un’esperienza di crescita, qualcosa che ti devi ricordare e su cui devi tornare a riflettere spesso per lungo tempo, quindi è necessario che contenga un’esperienza un po’ forte, capace di scuotere dal torpore interiore anche uno che appartiene al mondo dei morti (vedi post del passato).

Stavolta mi piaceva entrare in minima parte nella dimensione eremitica di colui "che vive nel deserto", che si ritira nella solitudine per consacrarsi alla meditazione o alla preghiera senza le distrazioni del contatto con la società umana, in pura castità, o senza la necessità di mantenere gli standard socialmente accettabili di pulizia o di abbigliamento. Tale scelta di solitudine, contemplazione e ascetismo nasce in Oriente, in particolare nell’ambito del taoismo, e si sviluppa nella sua forma più completa con il cristianesimo, dove l'eremita esce da sé stesso per trascorrere una vita interamente dedicata alla lode di Dio e all'amore e, attraverso la penitenza e la preghiera, per beneficiare l'umanità intera, alleggerendone il bagaglio karmico.

Fra i nostri anacoreti, "che si ritirano dalla società", ricordiamo gli eccezionali padri del deserto Paolo di Tebe e Antonio il Grande, primi eremiti che hanno dato origine a un movimento mai estintosi, dove diverse prassi si uniscono ad un estremo rigore di mortificazioni temporali: riducendosi gli uni a privarsi della locomozione, detti "stazionari", gli altri a rinchiudersi o murarsi in una cella, comunicando all'esterno per mezzo di una piccola apertura, i "reclusi", e altri ancora a errare continuamente per campagne o deserti, i "pastori". Tutti vincolati dalla legge della carità e pertanto a rispondere con generosità di fronte ai casi rientranti nelle opere di misericordia corporale (dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti) e spirituale (consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti), nonché sottomessi alla legge del lavoro, per cui obbligati a guadagnarsi da vivere con tutti i mezzi disponibili compatibili con l'insegnamento cristiano.

Insomma, gente che faticava per vivere e cercava la durezza della privazione per entrare meglio in contatto col divino, una scelta propria anche del mondo eremitico orientale.

Nel taoismo cinese del primo secolo dopo Cristo, l'amore per la natura, la ricerca della libertà personale, la concomitante antipatia per l'ordine sociale ispirato dal confucianesimo, ha portato sulla via del romitaggio guaritori, mistici, terapeuti-intellettuali, sciamani, alchimisti, ricercatori dell'immortalità, i quali cercavano di praticare una vita che li portasse a sentire la presenza del divino immanente al creato.

Le due polarità energetiche del Tao, lo Yin e lo Yang, descrivono la natura complessa, integrata anche se basata su principi opposti, del divino; nelle semplici parole di Wikipedia, lo yang fa riferimento al "lato soleggiato della collina", e corrisponde al giorno e alle funzioni più attive, mentre lo yin, facendo riferimento al "lato in ombra della collina", corrisponde alla notte e alle funzioni meno attive.

Oscurità e luce, freddo e caldo, stasi e movimento, confusione e chiarezza dovevano essere traslati nell’attività nella passeggiata affinché l’ignaro partecipante potesse sintonizzarsi al meglio con le energie cosmiche; ciò rendeva necessario che la prima parte della gita fosse fisicamente impegnativa e ad alta spesa energetica, mentre la seconda fosse incentrata su una dimensione mentale e interiore, coincidendo con il tramonto e dunque con il naturale succedersi planetario delle due forze. Mi serviva a questo punto uno strumento relativamente facile da praticare per tutti che attivasse l’energia Yin, di modo da non far collassare le persone alla fine della passeggiata, ma anzi risvegliasse in loro quel pizzico di kundalini che gli facesse percepire per un attimo la differenza fra sopravvivere ed essere vivi, oltre che il potere della mente sul corpo. Cosa di meglio dunque dello zazen, ovvero del “sedersi nel dimenticare”?

Tale pratica di meditazione di derivazione taoista e poi buddhista, ovvero il “processo di scioglimento dell'identità nell'assoluto", viene ben descritta nel tredicesimo secolo dal giapponese Eihei Dōgen: "Sedete in modo solidamente immobile, pensate il non pensare. Come pensare il non pensare? Non pensando. Questa è l'arte dello zazen". “Ci si siede sul cuscino tondo e si incrociano le gambe. Il piede destro sulla coscia sinistra, il piede sinistro su quella destra. È la posizione detta del loto. [...] Tenete il collo eretto e fate rientrare leggermente il mento. Le labbra e i denti sono chiusi senza essere contratti; la lingua poggia contro il palato, in modo che non vi sia aria né saliva nella bocca. Raddrizzate la testa come se voleste perforare il soffitto. Le spalle sono invece rilassate, sciolte da ogni tensione [...] Tieni sempre gli occhi aperti. Respira tranquillamente attraverso il naso”. Per quelli che di noi avevano le ginocchia fraciche, come me, ho preferito sostituire la posizione del loto con quella cinese detta zhan zhuang, o “stare eretti come un palo” ed anche detta di meditazione in piedi, opportunamente modificata con il mudra proprio dello zazen.

Nonostante i miei sforzi di semplificazione, la pratica, condotta per i cinquanta minuti canonici dentro l’eremo di Santa Lucia, dalla cui apertura entravano continue sferzate di vento dalla temperatura non superiore ai dieci gradi centigradi, non è stata sopportata da tutti, e di questo mi dispiace. Mi riprometto, per la prossima volta, di spiegare meglio come la mente può attingere dal corpo tutto il calore che vuole, se è libera dalla paura.

Ultimo dettaglio, la chiusura cristianizzata del nostro zazen, come codificata dal sacerdote pallottino padre Johannes Kopp, giustificata, nonché necessaria, se teniamo conto delle parole del padre gesuita Hugo Makibi Enomiya-Lassalle: “Il fondamento interiore delle verità spirituali e religiosi è innato, e si risveglia attraverso le pratiche di meditazione orientali. Questo organo immateriale, identificabile col terzo occhio, ovvero l’occhio della contemplazione, in chi è cristiano riattiva e rinvigorisce tutta l’eredità cristiana che egli porta nel subconscio. La verità è che se un cristiano [inteso come cultura di appartenenza], che porta dentro di sé tutto il cristianesimo, pratica intensamente lo zazen, dopo qualche tempo vede letteralmente accendersi all'improvviso le verità cristiane e le parole delle scritture e le afferra nel suo fondamento interiore, riattivando la fede religiosa, un’intuizione che coinvolge la sua intera personalità”.

E questo è quanto. Scese le tenebre, con gli ultimi eroici partecipanti ci siamo poi sollazzati con vino e hamburger una volta scesi dal monte, ma riferire dei chiacchiericci triviali di quel momento abbasserebbe il livello di questo post, dunque sorvolo.

Al più istruito fra i quattro lettori di questo post, se mai dovesse pensare: “Perdincibacco Andrea, ma hai fatto un mischione di tradizioni sapienziali che non c’entrano niente l’una con l’altra!”, che tanto istruito non è se mi pone questa osservazione, rispondo in anticipo con una frase di Meister Eckhart, che di simili rimproveri ne riceveva parecchi: “Colui che cerca Dio secondo un modo, prende il modo e lascia Dio, che è nascosto nel modo”.

Credendo, Vides! 😎👍🏻

Andrea