Uno, nessuno, centomila.

In quel di Ferragosto 2020, mentre con ascetica attitudine sto contemplando, ovviamente in padmasana, la vacuità del tutto e soprattutto del mio stomaco che attende bramosamente un piatto di spaghetti con le vongole da consumare per cena (poi evolutosi in pizza fritta), preparato a tale salto quantico dall’essere digiuno da ieri sera e dal bagno nel mare di Acciaroli in questo tardo pomeriggio dopo quello di stamattina nelle Gole del Calore (un vero italiano medio, insomma), consapevole che il breve e transeunte godimento mangereccio successivo spezza una grossa lancia a favore delle emozioni come mezzo principe di raggiungimento del benessere interiore, alla faccia della buddità, rifletto come sempre sul senso della vita umana e su cosa possa promuoverne l’evoluzione, soprattutto personale.
Considerato il ruolo che in tutto questo potrebbe occupare la dieta mediterranea intesa nel peggior modo possibile, ovvero quello italiano, ed escludendolo vedendone gli effetti nefasti sugli umani standard che mi circondano sulla spiaggia, oltreché su me stesso, ho ricominciato a considerare lo sviluppo della consapevolezza individuale, e dunque le chiacchiere psicologiche, come una valida alternativa.
Nella prima parte della presentazione che ho postato circa una settimana fa venivano fatte affermazioni un po’ forti, sia per i razionalisti incalliti, sia per i figli della profezia di Celestino (il romanzo del ’93, non l’anatema che Celestino V lanciò a Bonifacio VIII). Le riassumo per maggiore chiarezza nel dialogo con me stesso:
- Il nostro senso dell’“io”, elemento centrale della coscienza e della consapevolezza, si forma in seguito all'interazione con le persone che ci accompagna in tutta la nostra vita sociale e affettiva, che sono appunto gli “altri”;
- Fatto salvo un importante influsso ereditario (di cui parlerò nella seconda parte della presentazione), la nostra intelligenza e la nostra personalità si formano in seguito a dinamiche reattive di apprendimento in seguito agli stimoli del suddetto mondo di relazioni;
- Il nostro corpo, la sua forma, le sue attitudini e funzionalità, le sue malattie e malfunzionamenti, fatto salvo l’influsso ereditario di cui sopra (ben diverso da ciò che comunemente si immagina e certamente assai poco “genetico”), sono determinati sempre dai vissuti di relazione e dall'impatto interiore che esercitano su di noi;
- I nostri bisogni primari e le emozioni che li segnalano sono insopprimibili e sono l’unico, incessante, impulso interno che ci spinge a vivere esperienze e relazioni;
- La nostra vita e il nostro modo di essere (sentire, pensare e comportarci) sono determinati dalle relazioni che abbiamo e dalle esperienze di interazione che facciamo giorno per giorno e questa dimensione psicologico-esistenziale può non avere nulla a che vedere con ciò che invece ci raccontiamo su noi stessi, ovvero con ciò che crediamo di conoscere della nostra persona.
In pratica, recitiamo una parte, interpretiamo un copione, sollecitati dal grande palcoscenico sociale in cui siamo immersi. A partire da una manciata di variabili biologiche temperamentali (tendenza all'introversione/estroversione, velocità di elaborazione degli stimoli, grado di stabilità dell’umore, intensità del vissuto emotivo e tendenza all'aggressività) e guidati da un influsso morfico, la nostra personalità si sviluppa e assumiamo un ruolo nel mondo, sollecitati e instradati dagli stimoli che ci arrivano dagli altri. Se siamo onesti lavoratori, fattoni da centro sociale, imprenditori rampanti, casalinghe disperate, aspiranti santoni, estremisti politici, campioni dello sport, piccoli delinquenti e chi più ne ha, più ne metta, dipende dal contesto dove siamo nati e cresciuti e dagli incontri e dalle esperienze che abbiamo fatto… Seguiamo una strada che altri hanno scritto per noi, anche se un po’ lo facciamo a modo nostro.
La metafora del palcoscenico è molto adatta per esprimere questo processo; non a caso ci piacciono tanto le storie! Immaginiamo che, venendo al mondo, ci ritroviamo improvvisamente sul palco di un teatro, senza sapere chi siamo, né cosa ci facciamo lì, né chi siano le persone che insistentemente si rivolgono a noi; non sappiamo nemmeno che lingua parlino! Gradualmente, anche con una certa rapidità, impariamo che, in questo andare e venire di persone, un gruppetto ristretto rimane piuttosto costante (la nostra famiglia); ci insegnano a parlare la loro lingua e ci dicono chi siamo e cosa stiamo facendo lì con loro. Più correttamente, lo danno per scontato e non ci chiedono se capiamo, se ci piace o se siamo d’accordo, semplicemente insistono affinché entriamo a far parte dello spettacolo, tanto il copione ce lo dicono loro e noi dobbiamo solamente adeguarci. Non potendo fare altro perlopiù impariamo la parte, un po’ ci sbagliamo e molto improvvisiamo; curiosamente, ci accorgiamo che gli altri attori si adeguano alle nostre piccole variazioni del copione e questo ci fa sentire, ogni tanto, che possiamo anche indirizzare le sorti dello spettacolo… ma ci illudiamo, gli eventi della storia seguono un flusso che in larga parte ci sfugge sempre. Altri attori entrano ed escono di scena e ci spiegano nuovi dettagli della parte che dobbiamo interpretare, oppure non ci dicono nulla, ma noi vediamo i loro ruoli e riflettiamo con noi stessi su quali elementi dei loro personaggi troviamo interessanti e possiamo implementare nel nostro… Improvvisamente, sul palcoscenico salgono una moltitudine di interpreti, di cui la maggior parte cambia continuamente, e tutto diventa confuso, ci sono imprevisti e inconvenienti tecnici, ma siamo comunque in ballo e dobbiamo ballare, lo spettacolo deve continuare (la vita scolastica e poi lavorativa, in generale l’età adulta). Ciascuno, in questa moltitudine, ci dice qualcosa che dobbiamo aggiungere, togliere o modificare al nostro personaggio per sopravvivere, sentirci amati, essere parte del gruppo, trovare un partner e avere finalmente un ruolo di primo piano, tutto nostro, costruito sulla nostra vocazione, in questa incessante rappresentazione. A volte includere tutti gli atteggiamenti che ci si aspetta da noi nel nostro personaggio diventa impossibile, allora pensiamo bene di dividere i ruoli, moltiplicarli, inventandocene di nuovi per soddisfare le attese che si sono accumulate su di noi; può accadere anche che si perda la gerarchia dei ruoli e che non sappiamo più cosa stiamo facendo, che parti stiamo recitando, chi siamo nell'intreccio della storia. A molti di noi, a un certo punto, capita che il misterioso e invisibile regista, seguendo la storia che ormai da parecchi anni stiamo rappresentando, ci affidi dei nuovi attori che calcano la scena per la prima volta, spaesati e inconsapevoli come eravamo noi all'inizio, e dobbiamo inserirli nello spettacolo, istruendoli su quello che abbiamo imparato a riguardo (i nostri figli). Insegnando loro la parte, modifichiamo ancora la nostra e creiamo nuove deviazioni della storia. Infine, a un certo punto, a volte senza preavviso né tanti cerimoniali, spesso senza aver davvero portato a termine nemmeno un atto dello spettacolo, dobbiamo uscire di scena.
Di cosa parla lo spettacolo? Che parte dobbiamo interpretare? Sono domande senza importanza... Quale che sia la storia di cui facciamo parte, avremo sempre gli stessi desideri (sopravvivenza, attaccamento, accudimento, sessualità, auto-realizzazione), proveremo le stesse emozioni (felicità, rabbia, paura, tristezza, disgusto, forse sorpresa), anche gli stessi sentimenti (orgoglio, vergogna, colpa, amore, speranza, gelosia, invidia…), le stesse esperienze centrali (nascita, relazioni, morte). Ha importanza se siamo uomini o donne? Sani o malati? Medici, operai o mafiosi? Perversi puttanieri o devoti padri di famiglia? Atei, buddisti o musulmani? Non tanto nel complesso, ma un po’ sì, perché non tutti i ruoli favoriscono il benessere interiore, la serenità e la felicità in ugual misura; per questo aneliamo a prendere il controllo della storia e del nostro personaggio. Su questo tema, anziché la Profezia di Celestino che vi piace tanto, ri/leggetevi, vi prego, "Infinite Jest" di David Foster Wallace.
Il modo in cui cerchiamo di prendere il controllo di noi stessi e di cosa ci accade nella vita è il raccontarci la nostra storia, descrivendoci nelle nostre evoluzioni. E quante ce ne raccontiamo! Riporto alcune perle fra le tante che ho sentito: “Siamo ciò che Dio ha voluto”, “È colpa dei miei traumi infantili se sono diventato così”, “Figuriamoci, non assomiglio in nulla ai miei genitori, io mi sono fatto da solo”, “In realtà non esiste nessun "io", né esistono gli altri, è tutta un’illusione”, “Con la forza di volontà/assecondando il flusso degli eventi/mandando segnali al subconscio/praticando discipline orientali, possiamo diventare ciò che vogliamo”, “Quante sciocchezze, ciò che siamo dipende solo dai soldi e dal benessere materiale della nostra famiglia d’origine”. Insomma, il tentativo di lenire l’angoscia generata dall'assenza di controllo su noialtri e la nostra vita ci porta a costruire immagini interiori, guarda caso rappresentazioni, di noi, degli altri, del mondo, della vita, del futuro, dell’aldilà. Tutte queste rappresentazioni hanno un loro grado di verosimiglianza e un certo valore predittivo, se ben costruite, ma nessuna descrive davvero la nostra realtà; per questo alcuni individui pensano addirittura che essa non esista, che è tutto una nostra fantasia… Poi arrivano i bollettini da pagare, i vicini di casa rompipalle, la vecchiaia e gli acciacchi, qualche rimorso e rimpianto e si svegliano dalle loro fantasticherie su cosa esiste e cosa no. Insomma, nonostante la vita che ci prende continuamente a sberle e il fatto imbarazzante che gli altri ci conoscono meglio di quanto non ci conosciamo noi, ce la racconteremo sempre e comunque.
Il problema non sono però le balle che ci diciamo e che diciamo pure agli altri, ma il fatto che credendoci e dunque vincolandoci ad esse limitiamo il nostro potenziale di sviluppo interiore. E qui il lettore attento avrà pensato: “Andrea, ma non hai forse affermando sinora che non abbiamo alcun controllo reale su noi stessi? Perciò che intendi quando parli delle nostre possibilità di crescere?”. Come ho detto precedentemente in altri interventi, la crescita interiore non è altro che l’aumento della nostra consapevolezza, della nostra autonomia nei confronti degli altri e del grado di benessere in termini emotivi. “E come si può ottenere tale crescita, se siamo determinati dalle esperienze di vita e dalle relazioni che abbiamo con gli altri?”. La risposta è semplice: facendo cose interessanti e frequentando la gente giusta, tipo noi di Credendo Vides.
La vita ci presenta sempre opportunità di fare cose nuove e persone sconosciute e interessanti con cui interagire; i più, la massa sterminata di automi umani che vivranno sempre sotto il giogo di qualcuno, ignoreranno tali opportunità e si accontenteranno della nuova serie tv (meglio ancora rivedersi quelle vecchie) o di mettere qualche like su Facebook e assimilati; per i vecchi e i nuovi tradizionalisti, una bella ricetta di cucina poi per riempirsi il pomeriggio e la pancia non si batte mai!
Purtroppo, non si possono salvare tutti... Qualcun altro, però, riflettendo sulle sue miserie, sente che ciò che gli si trova intorno non gli basta e cerca qualcosa di nuovo e di migliore, ma non sa cosa cercare, altrimenti non sarebbe insoddisfatto! E qui il caso, o il destino, intervengono, e trovi qualcuno come noi, che mette in discussione le tue certezze, che ti dice “cose strane”, ti fa anche fare cose ancora più strane, che ti apre la mente. “Io non ne ho bisogno, la mia mente è già aperta, sono ormai nell'atarassia/ho capito che l’amore non esiste/sono uno psicologo/sono uno scienziato/sono in pensione e/o sono vecchio/ho assunto un sacco di ayahuasca e conosco la verità/sono un maestro zen/ho raggiunto il massimo grado della buddità/della coscienza karmica/cosmica/cristica”. Ecco, preparati, perché tu sei quello che ne ha più bisogno di tutti... E pure noi, perché abbiamo compreso quanto è importante smettere di chiudersi in sé stessi e aprirsi alla relazione con gli altri, e più voialtri siete diversi da noi, meglio è.
…Stavo quasi dimenticando! Nessuno nega, tanto meno io, il ruolo delle dimensioni spirituali sulla nostra realtà materiale. Ipotizzando che esistano e agiscano (com'è ovvio a chiunque non abbia preconcetti), esse determinano o influenzano a monte gli eventi della nostra vita, ovvero ci spingono a reagire in un modo piuttosto che in un altro nelle circostanze che permettono una scelta; non cambiamo però radicalmente il determinismo sostanziale alla base della nostra esistenza, ovvero la natura relazionale del nostro Io, semplicemente ne definiscono meglio il piano. Nessun pensatore serio (eccezion fatta per un cattolico oltranzista fermo al Concilio del 553 d.C.) crederebbe che il nostro spirito, se esiste, si identifichi con la nostra identità terrena; il primo, infatti, è postulato immortale e immateriale, la seconda è per definizione molto tangibile e a dir poco transeunte (“Ognuno sta sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”). Dunque, chiunque può capire che lo spirito, o l’anima, siano concetti enormemente più ampi di una semplice vita umana. Ragionevolmente, quindi, molti individui postulano la preesistenza dell’anima all'incarnazione e ipotizzano molteplici sistemi reincarnazionisti, nei quali lo stesso spirito si incarna più e più volte in esistenze profondamente diverse le une dalle altre. Anche se nel momento in cui siamo incarnati noi perdiamo il punto di vista dello spirito, prima o poi, dopo la morte, lo recuperiamo; non serve perciò che si abbia una grande libertà di scelta durante le incarnazioni, poiché, se esiste davvero la libertà di autodeterminare qualcosa, nella sua forma piena e forte essa è presente solo nel mondo dello spirito.
Per ora mi sa che ho detto tutto… presto metto la seconda parte della presentazione.
Buona notte e fate sogni di chiarezza!
Andrea
P.S. Tanti saluti dal Cilento!😄😎🏖